guerra ucraina
(Ansa)
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C'è un motivo per far finire la guerra in Ucraina: costa troppo

I costi del conflitto sono ormai insostenibili, da una parte e dall'altra. E anche questo potrebbe essere un buon motivo per far sedere al tavolo delle trattative

L'inchiesta del New York Times secondo la quale un giorno di guerra in Ucraina costerebbe come un mese di guerra in Afghanistan attrae l'attenzione e porta a pensare che una delle ragioni per le quali il conflitto finirà è che cominceranno a mancare armi, rifornimenti e soldi a Kiev ma anche a Mosca. La frase “un giorno di conflitto in Ucraina costa come trenta in Afghanistan” è di Camille Grand, assistente del Segretariato generale della Nato per gli investimenti della Difesa. Una considerazione plausibile, del resto mentre durante le guerre mondiali le industrie erano convertite alla produzione bellica, seppure oggi si tenti di incrementare la costruzione e la consegna di arsenali, in molti casi usando la guerra per rinnovare quelli esistenti e vetusti, come accade nei paesi dell'est Europa, già su questo giornale abbiamo scritto come il livello di consumo di talune munizioni rischi di intaccare le riserve della Nato e quelle della Russia, con Washington e Mosca a ricorrere alle forniture coreane di Seoul e Pyongyang. E se sciaguratamente decidessimo di costruire più armi e munizioni, per vederne gli effetti sul campo servirebbero almeno due anni. La storia insegna, soprattutto pensando agli Usa e agli effetti che ebbe la mobilitazione industriale ordinata da Franklin Delano Roosevelt dopo l'attacco di Pearl Harbor (soltanto di veicoli, dal '41 al '45 ne furono prodotti oltre tre milioni).

Per dare un'idea del consumo attuale di proiettili, in un giorno senza particolari offensive in atto, i russi ne sparano circa 10.000, mentre in caso di avanzate come quella di Luhansk si arriva al doppio. Quanto a distruzione, si calcola che oltre agli oltre centocinquantamila morti, ma è un numero che nella sua drammatica esattezza scopriremo soltanto tra anni, a oggi i danni alle infrastrutture e agli edifici delle principali città abbiano superato abbondantemente i 300 miliardi di dollari, con cittadine completamente rase al suolo come Mariupol, 160.000 edifici danneggiati al punto di non poter essere utilizzati (case, condomini, scuole, ospedali, depositi eccetera), circa 400 ponti fatti saltare in aria, 25.000 km di strade inutilizzabili perché distrutte o minate.

Pensiamo poi alle presunte perdite dell'esercito russo. Il quotidiano bollettino fornito dall'Ucraina ha numeri impressionanti, ad esempio: 3.000 carri armati e 280 aerei da guerra. Solo per questi il valore delle perdite si aggira attorno ai 50 mld di dollari.

Certo il paragone tra il territorio ucraino e quello afghano è improponibile, ma ad oggi è ancora improbabile che la Corea del Nord e la Cina chiudano del tutto i loro arsenali a Mosca, che la Difesa russa entri in crisi di rifornimenti al punto di accettare una resa, nonostante secondo gli analisti Usa il Cremlino stia già impegnando l'85% delle sue risorse, uomini inclusi. Il governo ucraino dopo sei mesi di conflitto aveva stimato di aver bisogno di 5 miliardi di dollari al mese per mantenere in funzione i servizi essenziali, e aveva calcolato che la cifra avrebbe potuto aumentare fino a rendere necessari 750 miliardi di dollari per poter ricostruire il Paese.

Ci sono poi i costi indiretti che si ripercuotono su altre nazioni, legati alle forniture energetiche, nonché quelli sociali e inevitabili per prendersi cura di oltre sei milioni di sfollati e rifugiati. Il conto non è finito: l'Ucraina è il granaio d'Europa e prima di poter tornare a coltivare territori devastati, minati, contaminati dagli effetti delle battaglie, ci vorranno almeno dieci anni, tempi anche ottimistici per recuperare anche i circa 30 miliardi di dollari persi dall'agricoltura ucraina, che esportava grano per 5,2 miliardi ma che finito il conflitto dovrà ricostruire attrezzature, logistica, trasporti, effettuare bonifiche e rimettere in piedi le sue aziende. Così già alla fine di agosto (ovvero dopo otto mesi di guerra), l'Onu stimava che i danni all'economia globale fossero vicini ai 3 trilioni di dollari. Giorno dopo giorno si tende a dimenticare che questo è il più grande conflitto nel nostro continente dalla Seconda guerra mondiale, della quale 77 anni dopo rimangono comunque ancora visibili alcuni segni. Il capo economista dell'Ocse Álvaro Santos Pereira sostiene che la crescita globale dell'economia si ridurrà di una differenza paragonabile alla sparizione del valore generato da una nazione grande ed evoluta come la Francia. Il paragone con Parigi non è casuale, dal momento che i Paesi Nato fino a oggi hanno sborsato aiuti a Kiev per 40 miliardi di dollari, quanto il budget annuale della Difesa francese. Ma, allora, come fa la Russia, e soprattutto come farà, a continuare questo conflitto? Sappiamo che tra il 2018 e il 2021 Mosca aveva già aumentato le spese militari del 3% circa, portandole all'equivalente di 65,9 miliardi di dollari, equivalenti al 4,1% del suo Pil nazionale, ovvero oltre il doppio di quanto ogni Paese Nato dovrebbe spendere per far parte dell'Alleanza, condizione disattesa per anni anche dall'Italia. Dunque le riserve russe possono durare ancora per altrettanti mesi di guerra; i problemi invece nasceranno una volta finito il conflitto, quando Mosca potrebbe ritrovarsi a pagare un conto salato per i danni e i debiti di guerra che, secondo analisti inglesi (dell'istituto Rusi), potrebbero arrivare all'equivalente di 6.000 miliardi di dollari. Debiti dei quali le nazioni difficilmente si dimenticano, ricorderemo infatti i 1.300 miliardi di euro chiesti da Varsavia a Berlino oltre 80 anni dopo l'invasione di Hitler. Quanti sono? A oggi circa tre volte il Pil nazionale italiano. E certamente l'economia russa uscirà dalla guerra in condizioni pessime.

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Sergio Barlocchetti

Milanese, è ingegnere, pilota e giornalista. Da 30 anni nel settore aerospaziale, lo segue anche in veste di analista. Docente di materie tecniche presso la scuola di volo AeC Milano è autore di diversi libri.

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