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(Ansa)
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De-escalation, l'unica parola che mette d'accordo Iran, Israele ed il mondo

Dopo l'attacco iraniano di sabato scorso e la risposta di Tel Aviv la diplomazia è al lavoro per spegnere le fiamme, che nessuno vuole, primi tra tutti i due protagonisti dello scontro

De-escalation. Questa la parola chiave per provare a leggere i prossimi passaggi della crisi mediorientale. Con la simbolica risposta che Israele ha affidato ai suoi droni per controbilanciare la rappresaglia iraniana, infatti, Gerusalemme lancia un messaggio al mondo. E anzitutto a Teheran. «Non siete voi il nostro obiettivo» ha implicitamente chiarito il gabinetto di guerra bersagliando questa notte Isfahan, «non vogliamo aprire un altro fronte ma ci concentreremo sul finire il lavoro a Gaza» il sottotesto.

Del resto, dar vita a un conflitto aperto con l’Iran – oggi come domani – sarebbe una follia improponibile per Gerusalemme. Oltretutto, un simile scenario trascinerebbe con sé tra gli altri Paesi come Arabia Saudita e Giordania, che tutto desiderano tranne restare invischiati in guerre che non sono minimamente attrezzati a combattere. Per questo, e anche per accontentare Washington, la buona volontà di procedere con una de-escalation è stata platealmente comunicata dal gabinetto di guerra israeliano attraverso un atto di cui gli americani erano stati messi a conoscenza per tempo, e sull’importanza del quale gli stessi funzionari e media iraniani hanno minimizzato. Segno che ambo le parti non trovano giovamento dal proseguire lungo questo crinale di sfida al rialzo.

Un fatto che la Casa Bianca apprezza molto, probabilmente più di tutti gli attori coinvolti. In cambio, Gerusalemme ha negoziato con l’Amministrazione Biden un via libera (ovviamente informale, il Dipartimento di Stato negherebbe con forza) da parte degli americani alla battaglia per Rafah, l’ultimo bastione della resistenza di Hamas nella Striscia di Gaza. Qui, infatti, per stessa ammissione degli israeliani, si trovano gli ultimi due dei sei battaglioni che costituivano complessivamente le milizie jihadiste palestinesi. E qui vanno concentrati tutti gli sforzi, senza aprire altri fronti e disperdere ulteriori energie. Soprattutto considerato che la campagna militare nella Striscia non sta andando esattamente come sperava il governo Netanyahu.

Se, dunque, dopo aver intrappolato Hamas al confine con l’Egitto, Gerusalemme si prepara adesso alla «battaglia finale», dall’altra parte si tratta di capire come invece l’Iran gestirà questa nuova fase post rappresaglia: se cioè continuerà a fornire finanziamenti e supporti logistico-militari all’Asse della Resistenza (ovvero i gruppi armati sparpagliati tra Gaza, West Bank, Libano, Siria e Yemen) in funzione meramente anti-israeliana, o se invece deciderà di concentrarsi soprattutto sui propri problemi interni, anzitutto di ordine pubblico, che certo non mancano.

Dopo la morte del generale iraniano Qassem Suleimani, ideatore dell’Asse della Resistenza e della strategia di accerchiamento progressivo di Israele, i Pasdaran sembrano aver perso progressivamente interesse circa quelle avventure belliche per procura che hanno contraddistinto l’ultimo decennio, ma senza incidere significativamente nel ridisegnare la geopolitica regionale. Semmai, la casta dei militari di nuova generazione ha deciso di concentrarsi sul mantenimento del potere in Iran; e, per raggiungere questo obiettivo, stanno scalzando persino gli ayatollah che, nel lungo periodo, potrebbero costituire persino un ostacolo alla loro idea di governo.

I Pasdaran, infatti, temono che l’inarrestabile ondata di proteste contro le restrizioni religiose degli ayatollah – considerate da molti non solo eccessive, ma fuori dal tempo – possano nuocere al processo di consolidamento dei «guardiani della rivoluzione islamica» quali unici referenti del potere assoluto in Iran.

Essi sono sì militari ma «spuri», nel senso che sono costruiti come un corpo paramilitare, una milizia organizzata per la difesa e il sostegno delle istituzioni rivoluzionarie in Iran, a partire dalla repubblica proclamata dall’ayatollah Khomeini. Quindi, implicitamente rappresentano una sorta di contropotere alle stesse forze armate. E infatti il comandante generale dei Pasdaran siede nel consiglio stretto dell’ayatollah Ali Khamenei, al fianco del capo di Stato maggiore dell’esercito regolare.

A oggi i Guardiani della Rivoluzione sono costituiti in circa 125 mila unità, però non irreggimentate e ancora in buona parte separate dalle forze armate regolari. Non a caso dispongono di una loro propria aviazione, e così anche di una marina e una fanteria, di cui le brigate Al Quds sono la punta di diamante.

Soprattutto, però, i Pasdaran detengono il cuore del potere economico persiano, dal momento che controllano direttamente e indirettamente settori strategici quali l’energia, le telecomunicazioni, la cantieristica e le infrastrutture. Le maggiori istituzioni economiche del Paese sono gestite, finanziante o compartecipate a livello azionario da loro e da loro soltanto. Cosa che li rende teoricamente impermeabili anche agli stessi diktat dei religiosi e della loro Guida Suprema, l’ayatollah Al Khamenei, visto che sempre ai Pasdaran spettano i compiti di polizia politica e polizia morale di cui il clero sciita si serve per imporre alla popolazione il rispetto delle politiche conservatrici e ortodosse.

Se la società civile iraniana dovesse scegliere, forse affiderebbe persino più volentieri ai Pasdaran e non già agli ayatollah il governo della Repubblica Islamica. Tutto questo è ovviamente indimostrabile, ma ha un certo peso sui ragionamenti interni e sulle decisioni cruciali dell’attuale governo a Teheran. In estrema sintesi, gli ayatollah garantiscono ormai soltanto la continuità della Rivoluzione del 1979, mentre i Pasdaran rappresentano la casta che controlla i cordoni della borsa. Il che, in un Paese dove la crisi economica attanaglia la maggioranza della popolazione, li rende l’ago della bilancia. E forse anche insofferenti nei confronti degli ayatollah, nonostante le vittime civili del governo centrale avvengano per mano dei Guardiani della rivoluzione (ma per «legge divina»).

Per la stessa ragione, però, i Pasdaran sono gli unici che potrebbero porre fine all’insensata brutalità del regime, che mette a morte i manifestanti per «atti contro Dio», ovvero per reati arbitrari secondo una formula vaga buona per ogni stagione, alienandosi progressivamente il sostegno della popolazione. Molto meglio concentrarsi sui progressi nucleari, per fare dell’Iran una potenza egemone del Medio Oriente: questo è il vero obiettivo politico strategico dei Pasdaran di nuova generazione. L’alternativa è rimanere una casta parassitaria, attaccata a un potere che non evolve e non produce se non crisi economiche alternate a crisi geopolitiche.

Proprio per questo, Israele osserva con grande attenzione quanto accade in Persia – soprattutto in relazione ai progressi nucleari – e, nel frattempo che pone d’assedio Hamas e sigilla il confine con il Libano, insieme con Washington lavora sotto le quinte per allargare gli Accordi di Abramo anzitutto all’Arabia Saudita. Da questo, e dal sostegno che otterrà a livello diplomatico, dipenderanno i futuri equilibri della regione. Un equilibrio da cui tanto Gerusalemme quanto l’Iran potrebbero uscire trasformati, con nuovi governi e migliori relazioni bilaterali.

C’è stato un tempo, agli albori della nascita dello Stato di Israele, in cui Teheran (al tempo guidata dalla monarchia laica dei Palhavi) considerava la nascita di Gerusalemme un fatto inevitabile e una risorsa per la regione: lo dimostra il fatto che, dopo la Turchia, l’Iran fu la seconda nazione a maggioranza musulmana a riconoscere ufficialmente Israele. Da allora e per il successivo quarto di secolo, i due Paesi mantennero una fruttuosa e positiva collaborazione, fatta di dialogo e d’intensi scambi commerciali, di progetti energetici e di sicurezza, con le ambasciate delle rispettive capitali che lavoravano alacremente per cementare una collaborazione vantaggiosa tra le parti.

Tutto questo non tornerà finché gli ayatollah deterranno l’ultima parola (essendo l’Iran ancora oggi una teocrazia). A questo lavorano gli attivisti iraniani in patria e all’estero, e forse gli stessi Pasdaran. Di certo, ci lavorano anche le intelligence americana e israeliana. Ma prima per Israele c’è da conquistare l’interezza della Striscia di Gaza, dopodiché il Medio Oriente entrerà inevitabilmente in una nuova fase, anche negoziale, dove peraltro ci sarà forse una nuova Amministrazione americana con cui fare i conti.

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Luciano Tirinnanzi