Il destino politico di Donald Trump
Mentre la situazione politica americana continua a navigare nell'incertezza, sono svariate le ipotesi che circolano sul destino di Donald Trump. L'eventualità di riuscire a ribaltare i risultati elettorali per via legale sembra farsi sempre più difficile e – in questo senso – le ipotesi sul suo futuro si accavallano.
Stando a quanto riportato nei giorni scorsi da Reuters e New York Times, il presidente starebbe prendendo seriamente in considerazione l'ipotesi di ricandidarsi nel 2024 alla nomination repubblicana: uno scenario teoricamente possibile, visto che la Costituzione statunitense non vieta l'eventualità di due mandati presidenziali non consecutivi. Del resto, non solo alcuni importanti esponenti del Partito Repubblicano (a partire dal senatore Lindsey Graham) stanno incoraggiando Trump a seguire questa strada, ma non bisogna neppure dimenticare il precedente di Grover Cleveland: l'unico inquilino della Casa Bianca ad aver finora condotto due mandati non consecutivi (il primo dal 1885 al 1889 e il secondo dal 1893 al 1897). Un fattore questo che ha reso Cleveland sia il ventiduesimo che il ventiquattresimo presidente degli Stati Uniti.
D'altronde, se Trump ha realmente intenzione di avviarsi verso una ricandidatura, ciò spiegherebbe anche alcune sue recenti mosse. Non è infatti escludibile che le numerose battaglie legali messe in campo nelle ultime settimane abbiano un preciso obiettivo di natura politica: delegittimare la vittoria di Joe Biden, per far sì che la sua nascitura amministrazione poggi su basi fortemente traballanti. Un elemento che indebolirebbe strutturalmente la presidenza democratica e garantirebbe a Trump la possibilità di rafforzarsi in vista di un'opposizione dura e pura. Del resto, se questo è l'obiettivo, l'attuale inquilino della Casa Bianca non sembrerebbe così lontano dal raggiungerlo. Secondo un recente sondaggio di YouGov, il 43% degli elettori registrati riterrebbe infatti che Biden non abbia vinto le elezioni in modo legittimo. Posto che si tratta ovviamente in maggioranza di elettori repubblicani, la quota non è affatto irrilevante dal punto di vista quantitativo e crea concretamente le premesse per approntare una spada di Damocle da far machiavellicamente penzolare sul capo di Biden. Insomma, pare proprio che Trump voglia ritorcere contro i democratici la strategia di delegittimazione che proprio costoro hanno condotto negli ultimi quattro anni ai suoi danni attraverso il caso Russiagate.
Ma attenzione: perché l'obiettivo politico di Trump non è soltanto quello di indebolire il presidente entrante (un presidente che, tra l'altro, dovrà fare i conti anche con i dissidi interni allo stesso asinello). L'attuale inquilino della Casa Bianca ha infatti anche necessità di rafforzare la propria presa sul Partito Repubblicano, soprattutto per arginare i malpancisti che vorrebbero silurarlo. È anche in questo senso che le cause legali possono aiutare il presidente in carica, senza poi trascurare l'incognita del Senato. Come noto, il destino della camera alta è appeso a un filo: quello dei ballottaggi in Georgia. È infatti attraverso questi due scontri elettorali che si capirà se i democratici saranno o meno in grado di conquistare la maggioranza senatoriale. Ed è qui che si assiste a un paradosso, che – a prima vista – potrebbe sembrare controintuitivo. A Trump conviene politicamente infatti una sconfitta dei repubblicani al Senato: un elemento che gli consentirebbe di diventare l'unico vero punto di riferimento per la base dell'elefantino, laddove un Senato a maggioranza repubblicana potrebbe essere tentato dal portare avanti una linea sganciata dai desiderata dell'attuale presidente. Del resto, lo scontro (sotterraneo) di potere su questo fronte è tra lo stesso Trump e l'attuale capogruppo repubblicano al Senato, Mitch McConnell. Di contro, è Biden che probabilmente spera in una sconfitta dem al Senato. Non dimentichiamo infatti che sia la camera alta a ratificare le nomine dei ministri. E che un Senato repubblicano offrirebbe al presidente entrante l'alibi per non scegliere rappresentanti della sinistra alla guida dei dicasteri chiave. Quei rappresentanti della sinistra che – da Elizabeth Warren a Bernie Sanders – Biden non ha mai digerito. E a cui non vuole affidare ministeri di peso, visto che in caso si ritroverebbe a dover gestire le (potenti) opposizioni di Wall Street e della Silicon Valley.
Che comunque esistano delle turbolenze in seno al Partito Repubblicano è fuori discussione. Tanto che è iniziata a circolare l'ipotesi che Trump possa addirittura uscire dall'elefantino e fondare un nuovo partito. Lo scenario, va detto, non è del tutto improbabile, anche perché già nel corso delle primarie repubblicane del 2016 l'attuale presidente accarezzò più volte l'idea di creare un proprio movimento. Non è tuttavia chiaro se questi rumor siano fondati o rispecchino una strategia di pressione politica. Certo è che, qualora Trump avesse realmente intenzione di fondare un nuovo partito, il precedente storico più affine potrebbe essere quello del 1912, quando l'ex presidente, Teddy Roosevelt, abbandonò – in polemica con William Taft – il Partito Repubblicano, per creare il Partito Progressista: schieramento politico che arrivò secondo – dietro ai democratici – alle presidenziali di quell'anno. Si trattò dell'unica volta nella storia americana che un "terzo partito" sia riuscito a piazzarsi al secondo posto in occasione di un'elezione presidenziale: un successo tuttavia effimero, visto che, nel giro di pochi anni, la forza propulsiva dei progressisti – in gran parte legata al carisma personale di Roosevelt – si esaurì e il sistema partitico americano tornò ad essere quello di sempre.
Va anche detto che, sul futuro politico di Trump, incomba l'ombra della scure giudiziaria, con il procuratore distrettuale di Manhattan, il democratico Cyrus Vance jr, che sarebbe pronto ad "azzannare" il presidente uscente, non appena il venir meno dell'immunità glielo consentisse: un Vance che, secondo indiscrezioni, starebbe puntando alla poltrona di governatore dello Stato di New York e che, proprio per questo, desidererebbe conseguire risultati giudiziari da rivendersi poi in campagna elettorale. È in questo quadro che Trump potrebbe fare ricorso al perdono presidenziale: un perdono che tuttavia avrebbe effetto soltanto su crimini federali e che - come ricorda per esempio Cnn - sulle attività della procura di Manhattan non potrebbe fornire protezione. Come che sia, su questo fronte ci sono due possibilità. Il presidente potrebbe in primis decidere di perdonare sé stesso: una via, questa, tuttavia difficilmente percorribile. Un memorandum, redatto dal Dipartimento di Giustizia nel 1974 (ai tempi, cioè, dello scandalo Watergate), espresse fortissime riserve su un simile scenario, lasciando ciononostante aperta l'eventualità che – ricorrendo al XXV Emendamento – il presidente potesse trasferire temporaneamente i poteri al proprio vice, ottenere il perdono e rientrare successivamente in carica. È quindi qui che si delinea la seconda possibilità: Trump potrebbe direttamente rassegnare le proprie dimissioni (magari nel mese di dicembre), facendo così diventare Mike Pence il quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti. Un Pence che, in questa veste, garantirebbe (almeno in teoria) il perdono a Trump e gestirebbe la transizione verso l'amministrazione Biden. Frattanto, con le mani libere già a gennaio, Trump già iniziare la sua (lunga) campagna elettorale.
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