Parole, parole, parole (sulle donne in Afghanistan)
La Rubrica - Lessico familiare
“Abbiamo perdonato tutti coloro che hanno combattuto contro di noi. Ci impegniamo per i diritti delle donne all’interno della Sharia. I media potranno continuare la loro attività”.
E ancora. “Le donne avranno accesso all’istruzione e dovranno indossare l’hijab per la loro sicurezza, ma non il burqa.”.
Ciliegina finale: “Crediamo nella libertà di parola, nel diritto all’educazione e al lavoro e nel fatto che tutti dovrebbero essere uguali di fronte alla legge, senza discriminazioni”.
Chi lo ha detto e quando?
Due portavoci del nuovo governo talebano dell’Afghanistan, in diretta TV, alla fine di agosto dell’anno scorso, quando il mondo assisteva sconvolto ai disperati tentativi di fuga da Kabul e all’evacuazione disordinata delle truppe occidentali dall’Afghanistan.
Mentre il pubblico ludibrio calava sui potenti dei Paesi ricchi che avevano usato questo paese come vetrina per dimostrare i muscoli nella lotta al terrorismo - promettendogli una transizione all’occidentale, illudendolo che non avrebbe più rivissuto il terrore talebano - mentre si invocavano corridoi umanitari e si prefiguravano scenari di repentini ritorni al medioevo per gli sciagurati abitanti rimasti, soprattutto se di sesso femminile, qualche improvvido analista geo-politico con laurea conseguita nelle migliori università europee e nord-americane provava a rassicurarci: “aspettiamo a disperarci, i Talebani hanno gli occhi del mondo addosso, vedrete che si comporteranno diversamente dal passato”.
E così, più scaltri di una volpe innanzi a una platea di babbei, gli stessi Talebani apparecchiavano la tavola dei nostri aneliti di rassicurazione, elargendoci quelle dichiarazioni distensive riportate all’inizio.
“Parole, parole, parole….”, cantava Mina nel 1972, proprio quando in Afghanistan le giovani universitarie ancora camminavano sorridenti e truccate, senza velo, per le strade di Kabul, facendo a gara a chi portasse la gonna più corta. Che ingenuità e creduloneria.
Infatti, quando l’attenzione mediatica si è allentata e indirizzata su mille altre emergenze mondiali, zitti zitti, i Talebani hanno sublimato l’arte coranica della taqiyya, cioè della dissimulazione, e si sono fatti beffe di tutti.
Così, a distanza di sei mesi, se oggi andiamo a dare un’occhiata fra quegli altipiani ormai sotto l’effige della Sharia, scopriamo che le dichiarazioni dei portavoce talebani erano, per dirla come Mina, ‘soltanto parole’.
Sono di questi giorni reportage terrificanti che denunziano come in Afghanistan alle donne è stato vietato tutto: altro che istruzione o lavoro, altro che politiche di inclusione.
Dopo aver annullato praticamente ogni diritto alle donne, molte di esse, vedove o senza più famiglia, vivono nella miseria più nera, nemmeno riassumibile a parole se - come ricostruito da testimonianze oculari - sono costrette a vendere i propri figli, in un infernale mercato nero della disperazione.
Anche tralasciando il lusso di poter studiare, fare sport o sentire musica, alle donne è precluso persino uscire di casa da sole, debbono indossare il burqa integrale e, da ultimo, alle stesse è stata vietata pure l’igiene personale.
Non potranno recarsi più nei bagni pubblici, diffusi nel mondo islamico, che rappresentano per molti, nei lunghi e gelidi inverni dell’Afghanistan, l'unica possibilità di lavarsi al caldo o celebrare i lavaggi religiosi rituali.
Insomma, altro che oscurantismo medioevale, qui oltrepassiamo ogni barriera, perché si sdogana il concetto che le donne, essendo al pari delle bestie, debbano essere trattate allo stesso modo.
Quindi, se nessuno porterebbe una pecora o una scrofa alle terme, perché autorizzare l’ingresso alle donne?
Ma tranquilli, giusto un po’ di indignazione e poi torneremo ad appassionarci dei dibatti sul green pass e sul caro-gas, perché il cinismo ci ha insegnato che è inutile darsi pena di ciò che, tanto, non abbiamo la forza di cambiare.
Info: Missagliadevellis.com