«Chiediamo a Draghi di prendere posizione sul genocidio in Tigray»
Dagli Stati Uniti il professor Mulugeta Gebregziabher, rappresentante della diaspora tigrina, sollecita il nostro premier a esprimersi sulla guerra in Etiopia.
«Tutti i grandi leader hanno parlato del Tigray. Ci aspettiamo che lo faccia anche il primo ministro italiano». Il professor Mulugeta Gebregziabher lancia un appello accorato al governo di Roma. Docente di Biostatistica alla Medical University of South Carolina a Charleston, Gebregziabher è di origini tigrine. Nato ad Adua, nel 2001 è emigrato negli Stati Uniti per fare il PhD. E ci è rimasto. Ha però sempre tenuto stretti contatti con la sua patria, dove collaborava con istituzioni sanitarie e accademiche. E a partire dallo scoppio della guerra, quasi un anno fa, si è mobilitato per far conoscere la mondo le sofferenze della sua gente. «A causa del blackout delle comunicazioni, da molti mesi non riesco a contattare mia madre, che ha più di 80 anni» racconta. «Non so neanche se è ancora in vita». Autorevole rappresentante della diaspora tigrina, il professore è vice-presidente dell'organizzazione Security and Justice for Tigrayans. «Lavora giorno e notte per aiutare la gente del Tigray» lo ha lodato su Twitter l'organizzazione Omna Tigray, che si batte per il rispetto dei diritti umani nella regione etiope. Panorama lo ha intervistato per capire che cosa sta succedendo nella regione etiope sotto assedio. Dove, come denuncia il World Food Program, la fame colpisce 7 milioni di persone. Vale a dire tutti i cittadini.
Il professor Mulugeta Gebregziabher.
Se la politica italiana tace, Papa Francesco ha più volte espresso su Twitter viva preoccupazione per la crisi umanitaria in Tigray.
«Nella regione del Tigray, la parte a Nord dell'Etiopia, è in corso un genocidio. È iniziato nel novembre 2020, quando il primo ministro dell'Etiopia, Abiy Ahmed Ali, ha dichiarato guerra al governo regionale del Tigray. Motivo? Il 9 settembre si erano svolte le elezioni per il rinnovo delle istituzioni regionali nel Tigray, nonostante il parere contrario del primo ministro».
L'accusa di genocidio è molto forte. In particolar modo se rivolta a un uomo che ha ricevuto il premio Nobel per la pace.
«Su questo tema ho scritto un pezzo su The Hill con un collega della Johns Hopkins University, Leonard Rubenstein. È molto molto triste che un primo ministro che ha ricevuto il più alto premio per la pace esistente, pochi mesi dopo averlo ricevuto abbia scatenato una guerra. È molto ironico».
È incredibile. Com'è potuto avvenire?
«Abiy non ha solo scatenato usato tutte le forze etiopi. Ha anche usato tutte le forze eritree, tutte le milizie amhara e altre forze regionali per distruggere il governo e il parlamento del Tigray. Ha anche ricevuto droni dagli Emirati arabi uniti».
Ma esattamente perché parlate di genocidio?
«La ragione per cui usiamo questo termine così forte - genocidio - è basata su prove concrete. Nonostante abbia ricevuto il Nobel per aver fatto la pace con l'Eritrea, il primo ministro si è alleato con l'Asmara, invitando le forze eritree nel Paese per attaccare il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (Tplf) e il governo del Tigray. Ora le spiego perché parlo di genocidio».
Prego.
«Hanno invaso il Tigray distruggendo l'80% delle strutture sanitarie. Ha sentito parlare di quante donne hanno subito stupri di gruppo deliberati? Mentre le violentavano, dicevano loro: "Ti stupriamo in modo che tu non abbia più un bambino tigrino". Amnesty international ha realizzato un rapporto ben documentato su queste atrocità. Ma non si solo limitati a stuprare e a distruggere importanti infrastrutture. Hanno anche massacrato civili. Avrà sentito del massacro di Axum, il 28 e il 29 novembre 2020: hanno fatto una strage con qualcosa come 800 morti all'interno della Chiesa di Santa Maria di Sion, dov'è conservata l'Arca dell'alleanza».
Un'atrocità, compiuta per giunta in un luogo sacro.
«L'aspetto più triste, per me, è che uno dei tirocinanti di un training che avevo tenuto all'università di Axum nel 2019 è stato ucciso durante il massacro. Ma ci sono stati anche altri massacri: se ne possono contare più di una dozzina. E tutti si concentrano sui giovani. L'idea è di uccidere i giovani per sterminare l'intero popolo. E poi ci sono le distruzioni di chiese e artefatti storici. Hanno distrutto alcune delle chiese più antiche del Tigray, come il monastero di Debre Damo. Tutti questi elementi dimostrano che quei soldati e quelle milizie non sono nel Tigray solo per uccidere i membri del Tplf o il nemico».
Che cosa sono lì a fare?
«Sono lì a distruggere la regione e forse anche a sterminare tutta la gente. Per questo lo chiamiamo genocidio».
Secondo lei, il progetto del primo ministro sarebbe proprio di sterminare tutti i tigrini?
«Sì. O, meglio, tutte le indicazioni portano a pensarlo. Anche se non ci riusciranno, perché storicamente i tigrini sono molto resilienti, lavoratori indefessi e grandi combattenti. Ma il piano del primo ministro, come quello del presidente eritreo Isaias Afewerki, un fascista al potere da sempre, era di fare in modo che il Tigray non torni mai più a essere forte. Basta guardare quanti tigrini ci sono nei campi profughi in Sudan: più di 60.000. E oltre 5,2 milioni sono sfollati all'interno del Tigray».
Una catastrofe...
«La commissione Onu sui genocidi ha delle regole per classificare i genocidi. Ebbene, sono previsti 10 casi. E in Tigray si sono verificati tutti e 10».
Ma le Nazioni Unite non lo hanno ufficialmente definito un genocidio?
«A me risulta che il Consigliere speciale per la prevenzione dei genocidi dell'Onu, Alice Wairimu Nderitu, abbia scritto due rapporti in cui sosteneva che in Tigray erano presenti tutte le condizioni per definirlo un genocidio. L'ufficio del Segretario generale Onu Antonio Guterres, però, non lo ha dichiarato pubblicamente».
Il 30 luglio Alice Wairimu Nderitu ha «espresso allarme per la continua deteriorazione della violenza etnica in Etiopia e per le forti accuse di serie violazioni della legge internazionale umanitaria e dei diritti umani».
«Esatto. Poi c'è stata la Commissione per i diritti umani dell'Onu che ha parlato di pulizia etnica, crimini di guerra e crimini contro l'umanità. Dopo di che c'è stato un rapporto del Dipartimento di Stato Usa, che ha denunciato pulizia etnica, crimini di guerra e crimini contro l'umanità. Tutti hanno paura di usare la parola genocidio, ma hanno denunciato quasi tutto quello che è incluso nella definizione di genocidio».
Ma perché queste istituzioni non fanno qualcosa?
«Domanda da un milione di dollari. È molto difficile rispondere, ma le dò il mio punto di vista. Da quando Joe Biden è presidente, gli Stati Uniti sono stati molto chiari nel dire che in Tigray si stanno verificando crimini di guerra contro l'umanità e che devono finire. È stato detto anche che le forze eritree sono forze d'invasione e che devono lasciare il Tigray. È stato aggiunto che le milizie amhara, che occupano la parte occidentale e meridionale della regione, devono andarsene perché hanno invaso il Paese e hanno compiuto pulizia etnica. A muovere queste accuse sono stati gli Usa, le Nazioni Unite, Amnesty International e Human Rights Watch. Mark Lowcok, l'ex capo di Un Ocha, l'ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari, ha anche parlato di "carestia armata" in Tigray».
Vale a dire?
«Per "carestia armata" si intende una carestia usata come strumento di guerra. Funziona così. Se non si hanno sufficienti pallottole per ammazzare la gente, si chiude tutto. Si bloccano gli aiuti umanitari, si bruciano i raccolti e a quel punto si fa morire la gente di fame. Molti Paesi, fra cui l'Unione europea, gli Stati Uniti e molti Paesi importanti occidentali che siedono nel Consiglio di sicurezza dell'Onu hanno cercato di affrontare l'argomento. Ma il Consiglio di sicurezza non è potuto passare all'azione perché la Russia, la Cina e un po' anche l'India si sono opposte a una discussione pubblica sul Tigray alle Nazioni Unite. Ma c'è anche un'altra componente».
Vale a dire?
«All'interno del Consiglio di sicurezza c'è un blocco di Paesi africani contrari a un intervento dell'Occidente, sostenendo che gli africani devono risolvere i loro problemi da soli. Si tratta dei tre membri non permanenti: Kenya, Niger e Tunisia. Sono coordinati dall'Unione africana, che guarda caso ha già preso le parti del primo ministro Abiy Ahmed Ali».
Quindi non c'è speranza in un intervento internazionale?
«Gli Stati Uniti, l'Unione europea e la Nato, che si dicono altamente preoccupati, potrebbero agire per conto proprio. In realtà hanno cominciato a fare qualcosa. Nell'ambito del Magnitsky Act, il 23 agosto gli Stati Uniti hanno sanzionato il Capo di stato maggiore dell'esercito eritreo, Filipos Woldeyohannes, accusato di aver commesso gravi abusi dei diritti umani durante il conflitto in corso nella regione etiope del Tigray. E tre giorni fa l'Unione europea, in collaborazione con il World Food Program, ha fatto un ponte aereo, lanciando aiuti nel Tigray. Il ponte aereo si sarebbe dovuto ripetere ogni giorno. Invece si è fermato dopo il primo volo, a causa del blocco imposto dal primo ministro etiope Abiy».
Il Tigray è stato accusato di usare bambini soldato.
«Il portavoce del governo tigrino ha totalmente respinto quest'accusa, sostenendo che hanno abbastanza combattenti adulti, senza bisogno di ricorrere ai bambini. In effetti conosco personalmente molti impiegati pubblici in Tigray che si sono arruolati. Non avevano lavoro, non ricevevano un salario... L'unica opzione rimasta loro era combattere».
In effetti il 19 agosto la Bbc ha denunciato un tentativo di disinformazione: le erano state proposte interviste a finti bambini soldato.
«È successo qualcosa di simile anche al New York Times, con una foto di presunti bambini soldato. In realtà non credo proprio che in Tigray stiano usando bambini soldato».
Tornando alla comunità internazionale, che cosa può fare?
«La prima cosa da fare sarebbe togliere l'assedio, creando corridoi umanitari per far entrare aiuti in Tigray. E poi far tornare l'elettricità, far riaprire le banche, ripristinare le telecomunicazioni... A questo dovrebbe pensare la comunità internazionale. E anche il governo italiano dovrebbe avere un ruolo in questa crisi. Alcuni Paesi sono stati forti e chiari. Si è fatta sentire l'Unione europea, si sono fatti sentire gli Stati Uniti, si è fatta sentire l'Irlanda, si dono fatti sentire i Paesi scandinavi... Ma l'Italia ha finora taciuto. Il governo italiano dovrebbe avere un dovere morale di dire no al genocidio e di contribuire allo sforzo umanitario verso il Tigray. Oggi sono 315 giorni che il Tigray è in guerra. Mario Draghi dovrebbe parlarne, come ha fatto il presidente Joe Biden. Di recente a Roma c'è stata una manifestazione contro la vendita di droni turchi al premier Abiy. La Turchia è membro della Nato, come l'Italia. Draghi non ha nulla da dire ad Ankara che vende droni ad Addis Abeba per ammazzare la gente in Tigray?».
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