Elezioni Usa: Il prossimo presidente dovrà essere operaio
Negli ultimi anni la classe lavoratrice è sempre più importante per il voto Usa. Soprattutto nei tre Stati industriali della «Rust Belt»: Michigan, Pennsylvania e Wisconsin. Ma se Donald Trump già nel 2016 si rivolgeva ai «colletti blu», Kamala Harris non è esattamente a proprio agio con questi elettori
In America la classe operaia non andrà «in paradiso», ma di sicuro negli ultimi 16 anni ha avuto un peso importantissimo sulle elezioni presidenziali. Non a caso, la corsa per la Casa Bianca viene ormai in gran parte decisa dai tre Stati operai della Rust Belt: Michigan, Pennsylvania e Wisconsin. Si tratta di un’area problematica che, negli scorsi anni, ha subìto le conseguenze della Grande recessione e della deindustrializzazione. Senza trascurare la concorrenza sleale cinese. Se il Michigan è storicamente legato al comparto automobilistico, in Pennsylvania è presente la siderurgia, oltre all’estrazione del gas naturale. Il Wisconsin, infine, ha un’economia attiva in vari settori: macchinari agricoli, motociclette e carta. Ora, l’aspetto interessante sta nel fatto che i «colletti blu» di questi tre Stati sono storicamente elettori del Partito democratico. Eppure, negli ultimi tempi, qualcosa sta cambiando. Una delle trasformazioni politiche più significative che Donald Trump è riuscito a imprimere al partito repubblicano è stata l’averlo reso sempre di più lo schieramento di riferimento della classe lavoratrice.
Questa svolta era già emersa nella campagna elettorale del 2016, quando il tycoon incentrò gran parte della sua proposta programmatica su un’ampia revisione del commercio estero degli Stati Uniti. Così adottò una linea severa nei confronti della Cina, invocando anche una rinegoziazione di alcuni accordi di libero scambio, considerati svantaggiosi per i lavoratori della «Rust Belt», la cintura industriale del Nord America. Ecco che l’allora candidato repubblicano prese a crescere tra i colletti blu di Michigan e Wisconsin, preoccupati soprattutto per il dumping di Pechino e la sua concorrenza sleale. Trump divenne anche un paladino dell’energia tradizionale contro l’ideologia green che aveva caratterizzato gli ultimi anni della presidenza di Barack Obama: un fattore, questo, grazie a cui il tycoon entrò in sintonia con il mondo operaio di quella Pennsylvania, la cui economia è significativamente legata al «fracking», l’estrazione del petrolio per mezzo della frantumazione di rocce scistose.
Non è quindi stato un caso che, nel 2016, il candidato repubblicano sia riuscito a conquistare, per quanto d’un soffio, Michigan, Wisconsin e la stessa Pennsylvania: Stati che dal 1992 al 2012 avevano ininterrottamente votato per i dem alle presidenziali e che nel voto del 5 novembre prossimo saranno decisive. Da presidente, poi, Trump mantenne gran parte delle promesse che aveva fatto alla working class. Rinegoziò il vecchio accordo commerciale tra Stati Uniti, Messico e Canada, bloccando inoltre la Trans Pacific Partnership, un’intesa di libero scambio firmata da Obama. Avviò anche una guerra commerciale con la Cina e abbandonò l’accordo di Parigi sul clima. Quello che non gli riuscì, per l’opposizione dell’ala più ortodossa dello stesso partito repubblicano, fu la riforma infrastrutturale che aveva promesso in campagna elettorale: un fattore, questo, che lo avrebbe danneggiato alle elezioni del 2020. In quella tornata, Trump perse infatti in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin. Tuttavia in questi tre Stati ottenne molti più voti rispetto a quattro anni prima. Segno che la sua influenza sulla working class si era ormai radicata.
E attenzione: non si fa riferimento soltanto alla working class bianca. Con Trump, il Partito repubblicano ha cominciato a crescere anche tra gli afroamericani e, soprattutto, tra gli ispanici. Non a caso, a fine settembre, la testata progressista Vox titolava: «Il Partito repubblicano è meno bianco che mai. Grazie a Donald Trump». Una netta inversione di tendenza, insomma, rispetto al 2012, quando il Grand old party era additato come il punto di riferimento quasi esclusivo di bianchi e classi ricche. Da questo punto di vista, è interessante il curioso fenomeno dei cosiddetti «Obama-Trump voters»: elettori, cioè, che, nella Rust Belt, hanno votato Obama nel 2008 e nel 2012, per poi sostenere Trump nel 2016 e nel 2020.
L’apparente paradosso si spiega con il fatto che l’Obama degli albori era risultato assai attrattivo per gli operai di quell’area. Si presentò come candidato anti-establishment oltreché pronto a salvare il settore automobilistico: un elemento, questo, che gli fece guadagnare consensi soprattutto in Michigan. E poi che cosa è accaduto? Che i democratici ha man mano iniziato ad allontanarsi dalla tradizionale classe lavoratrice, inseguendo il progressismo di stampo californiano. Uno dei principali problemi che riscontrò Hillary Clinton nel 2016 fu proprio con i colletti blu della zona di produzione siderurgica. È una quota elettorale rispetto a cui Joe Biden - originario della Pennsylvania e storicamente più vicino ai sindacati - fu maggiormente apprezzato, senza però riuscire a invertire la tendenza. Come detto infatti, pur perdendo in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, Trump nel 2020 ha ricevuto in questi Stati molti più voti rispetto a quattro anni prima.
E adesso il vero problema riguarda Kamala Harris. La vicepresidente ha la sua storica base di consenso nei ceti urbani abbienti della California: non risulta quindi esattamente a suo agio negli Stati operai. Anche il suo vice, Tim Walz, riconfermato governatore del Minnesota nel 2022, non ha ricevuto particolare apprezzamento da quell’elettorato. Per guadagnare terreno, la candidata dem ha abbandonato le sue posizioni «verdi» più radicali, diventando per esempio una sostenitrice di quel fracking che, nel 2019, voleva invece vietare. Eppure un pezzo del mondo sindacale le ha voltato le spalle: pur avendo ottenuto l’appoggio di alcune importanti sigle come l’Afl-Cio, la vicepresidente è stata abbandonata da altre. Per esempio, il potente sindacato degli autotrasportatori e dei ferrovieri ha deciso, quest’anno, di non dare l’appoggio ad alcun candidato presidenziale: un autentico schiaffo alla Harris, visto che, dal 2000, questa organizzazione dava ininterrottamente il proprio «endorsement» ai dem in occasione delle presidenziali. Non solo. Secondo un sondaggio interno, pare che il 58 per cento degli iscritti sia attualmente favorevole a Trump.
Un’altra tegola sulla vicepresidente è arrivata dal sindacato dei vigili del fuoco che, pur avendo appoggiato Biden nel 2020, quest’anno ha deciso di non schierarsi. D’altronde, secondo la media sondaggistica di Real clear politics, il vantaggio della candidata dem nei tre Stati operai della Rust Belt è inferiore a quello di Biden e della Clinton rispettivamente a inizio ottobre del 2020 e a inizio ottobre del 2016. Come se non bastasse, dice l’analista della Cnn Harry Enten, la Harris, al momento, sarebbe avanti nel voto dei lavoratori sindacalizzati di soli nove punti: dieci in meno rispetto a Biden nel 2020.
A inizio ottobre, inoltre, il quotidiano Philadelphia Inquirer ha riportato che i repubblicani stanno avanzando in quei quartieri operai di Philadelphia, che un tempo erano roccaforti dem. Trump, insomma, convince di più. Con la crociata contro le auto elettriche, corteggia i metalmeccanici del Michigan, mentre, auspicando l’indipendenza energetica, strizza l’occhio agli operai della Pennsylvania. Ha inoltre scelto un vice, JD Vance, che, sulla carta, è un profilo assai attrattivo per le zone ad alta concentrazione operaia. Del resto, il candidato repubblicano sa bene che, per rientrare alla Casa Bianca, gli basterebbe difendere gli Stati espugnati nel 2020, aggiungendo Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. È probabilmente questa la strategia che sta seguendo. In parallelo, però, va ricordato come in questi anni, i repubblicani siano, sì, cresciuti tra i lavoratori, ma hanno anche contestualmente perso terreno negli hinterland benestanti delle grandi città. Si tratta di aree dove Trump aveva incontrato notevoli difficoltà nel 2020. Qui, oggi, sta cercando di dar battaglia, puntando sui temi economici e ammorbidendo parzialmente la tradizionale posizione repubblicana sull’aborto. È tuttavia sui più ruvidi colletti blu che il tycoon sta davvero scommettendo in questi ultimi, decisivi giorni di tour elettorale. Perché è lì che la sua avversaria appare maggiormente vulnerabile.