Erdogan chiede a Putin di restituire la Crimea. Perché è una buona notizia
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Erdogan chiede a Putin di restituire la Crimea. Perché è una buona notizia

Il presidente turco ribadisce il sostegno alla sovranità ucraina e condanna l'annessione della Crimea, mantenendo equilibri geopolitici tra NATO, BRICS e Russia.

Nato, qualcosa si muove. Almeno a sentire il turco Recep Tayyip Erdogan, presidente del Paese islamico chiave del Mediterraneo - perché incuneato tra Europa, Medio Oriente e Asia Centrale - nonché il secondo più forte esercito dell’Alleanza atlantica. Ecco che, a proposito di forza muscolare, Erdogan ha appena chiarito un punto nodale circa la road map verso la pace in Ucraina: «Il sostegno della Turchia all’integrità territoriale, alla sovranità e all’indipendenza dell’Ucraina rimane incrollabile», ha dichiarato ieri in un videomessaggio inviato al vertice della Piattaforma internazionale della Crimea, la penisola contesa tra Kiev e Mosca.

Ma soprattutto, il presidente turco - che molto si è speso per i negoziati tra le parti in guerra, pur senza grandi risultati – ha chiarito che «il ritorno della Crimea all’Ucraina è un requisito del diritto internazionale». Non è un fatto inedito, ma senz’altro una dichiarazione di grande rilevanza.

Come noto, Mosca controlla la Crimea dal 20 febbraio 2014 – ancora e sempre febbraio – quando, con un colpo di mano e un esercito di «omini verdi» (milizie armate prive d’insegne militari) al soldo del Cremlino, costituì la cosiddetta «autodifesa della Crimea» e prese possesso dei palazzi delle istituzioni, delle casematte e delle basi militari, a significare che indietro non si tornava. Infatti, subito dopo Mosca fece votare un referendum per l’annessione (che si risolse in un plebiscito in suo favore), mentre lungo le coste la flotta del Mar Nero sorvegliava minacciosa, prima di ancorarsi a Sebastopoli.

Tutto ciò sotto gli occhi attoniti del resto del popolo ucraino e con la complicità del presidente-fantoccio Viktor Yanukovich, al tempo già in grave difficoltà perché alle prese con Euromaidan, ovvero una rivolta popolare armata che, dalle piazze di Kiev, chiedeva a gran voce la sua destituzione. Il 20 febbraio fu anche il giorno più sanguinoso della protesta: i manifestanti marciarono verso il Palazzo del Governo e del Parlamento, e ottennero da Yanukovich un accordo che prevedeva elezioni anticipate e la costituzione di un Governo di Unità Nazionale.

Non andò così: due giorni dopo, il 22 febbraio, Vladimir Putin convocò l’alto comando militare e i vertici della sicurezza per discutere della «liberazione» di Yanukovich e del «ritorno della Crimea in Russia». Quel giorno stesso, il presidente ucraino salì su un elicottero e fuggì in Russia, mentre il popolo assaltava i palazzi del potere. Il resto lo conosciamo: da allora la Crimea contesa è in mano russa, ed esattamente otto anni dopo l’invasione del Donbass ha segnato l’inizio della più devastante guerra fratricida nell’Europa orientale dai tempi del secondo conflitto mondiale.

Ma gli esiti della guerra stavolta non sono scontati: nonostante le speranze di Putin di ripetere anche a Kiev il colpo di mano ottenuto con pieno successo in Crimea, le cose sono andate diversamente. Al punto che la stessa Russia ha subìto un furto di territorio, nella regione del Kursk. Uno di cui si tornerà presto a parlare quando, almeno secondo Erdogan, si tornerà a sedersi per negoziare la de-escalation.

La notizia è che le dichiarazioni del presidente della Turchia avrebbero fatto breccia al Cremlino, che ascolta sempre con interesse ciò che ha da «offrire» lo scaltrissimo leader turco. È stato lo stesso ufficio presidenziale, per bocca del portavoce Dmitry Peskov, a far sapere che Vladimir Putin potrebbe tenere un colloquio con Erdogan nell’ambito del vertice Brics che si terrà nella città russa di Kazan dal 22 al 24 ottobre.

Ankara, infatti, continua a seguire la «politica dei due forni»: da un lato ha ufficialmente confermato di volere entrare nei Brics, cioè l’organizzazione delle «economie emergenti» guidata da Vladimir Putin e Xi Jinping che – insieme a Brasile, Cina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, India, Iran, Russia e Sudafrica – intende competere con lo strapotere del sistema economico internazionale agganciato al dollaro statunitense, per intaccare e poi sostituirsi all’egemonia dell’Occidente (la Turchia è il primo Paese della Nato a chiedere di far parte dei Brics). Dall’altro, sostiene il piano atlantista e fa l’eco a Washington, che intende liberare a qualunque costo, con la forza o con dei negoziati, l’Ucraina dal giogo russo.

Come già per la guerra civile in Siria, Erdogan non ha mai voluto o cercato uno scontro diretto con la Russia. Ma quando si è trattato di fare i propri interessi, la Turchia si è presa la regione nord-occidentale di Idlib, dove le forze russe manovravano in sostegno di Damasco per la riconquista del Paese minacciato dallo Stato Islamico. Là in Siria Erdogan aveva un obiettivo preciso e diretto: strappare le province del nord-ovest ai siriani per creare una zona cuscinetto di sicurezza a scapito dei curdi, la cui condizione di apolidi li rende una minaccia costante per l’integrità territoriale turca (e siriana), visto che i curdi vorrebbero creare uno stato indipendente, il Kurdistan, proprio al confine turco.

Quanto alla Crimea, anche qui l’obiettivo è geopolitico e si rifà al controllo storico turco del Bosforo e dei Dardanelli ovvero al garantirsi la tranquillità nel Mar Nero in contrapposizione alla proprio alla Russia, che sin dai tempi degli Zar cerca l’accesso ai «mari caldi» per giocare un ruolo di primo piano nel Mediterraneo e insidiare l’Europa.

L’ultima volta che la Turchia (o meglio l’Impero ottomano, che Erdogan cerca di riportare in auge) sia oppose alla Russia era il 1853: al tempo Costantinopoli, sostenuta da Francia e Gran Bretagna (con l’appoggio di un corpo di spedizione piemontese) dichiarò guerra ai russi e cinse d’assedio Sebastopoli, massimo porto russo sul Mar Nero. La guerra di Crimea si concluse nel 1856 con il Congresso di pace di Parigi che portò alla smilitarizzazione del Mar Nero e alla relativa perdita della flotta russa, con Mosca che dovette cedere anche la Bessarabia (l’attuale Moldavia).

Questo per dire che le radici di ciò che avviene oggi in Crimea sono le stesse di allora: Turchia e Russia ragionano ancora secondo logiche da impero ed entrambe, per quanto socie in ambito economico, hanno obiettivi strategici e militari diametralmente opposti e inconciliabili. Ecco perché, in definitiva, la presa di posizione di Recep Tayyip Erdogan è una buona notizia per la pace in Ucraina. Il leader turco è in fase di riavvicinamento con l’Unione europea, con cui condivide non solo il sostegno a Kiev ma anche la volontà di risolvere la questione dell’unione doganale con l’Ue, le controversie legate alla frontiera marittima tra Grecia e Turchia, nonché la questione della divisione dell’isola cipriota cui si agganciano i giacimenti off shore al largo di Cipro e Israele.

Tutte questioni che valgono ben più di un sostegno alla Federazione russa, la cui condizione sempre meno rassomiglia al proverbiale carro del vincitore su cui verrebbe voglia di saltare sopra. Mentre Ankara ha tutto da guadagnare dalla pace e da una diminuita forza negoziale di Mosca.

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Luciano Tirinnanzi