Gas africano: rischi e opportunità per l'Ue
Riparte il progetto del gasdotto trans-sahariano. Per l'Unione europea è un'opportunità, ma anche un rischio da valutare con attenzione
Algeria, Niger e Nigeria hanno ripreso le trattative questa settimana, per riesumare il progetto del gasdotto trans-sahariano. In particolare, i tre Paesi hanno creato una task force e avviato uno studio di fattibilità. Si tratta di un’opera che, almeno in teoria, dovrebbe consentire all’Unione europea di diversificare ulteriormente il proprio approvvigionamento di gas: una necessità, questa, diventata notoriamente impellente a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina. Si stima che l’opera verrebbe a costare circa 13 miliardi di dollari e che potrebbe fornire annualmente all'Ue 30 miliardi di metri cubi di gas. Ricordiamo che Algeria, Nigeria e Niger avevano siglato un accordo per la realizzazione del gasdotto nel lontano 2009: un accordo che era tuttavia successivamente rimasto lettera morta.
Ora, è chiaro che rispolverare questa idea potrebbe rivelarsi di grande aiuto per un’Europa occidentale ancora troppo dipendente dal gas russo: una situazione, questa, dovuta a scelte politiche disastrose effettuate negli scorsi anni (è del resto proprio in tale ottica che, pochi giorni fa, la Commissione europea ha firmato un importante accordo con Israele ed Egitto). Bisogna però al contempo fare molta attenzione.
Innanzitutto va ricordato che il Sahel sta diventando un’area sempre più instabile: violenti attacchi terroristici di matrice islamista stanno infatti segnando Paesi come il Mali e il Burkina Faso. Sotto tale aspetto, la situazione appare fortemente problematica anche in Niger, dove - nel 2021 - il Global Terrorism Index ha riferito che il terrorismo ha mietuto ben 588 vittime. Tutto questo, mentre – secondo le Nazioni Unite – gruppi armati operano soprattutto nelle regioni di Tillabéri, Tahoua e Diffa. Anche la Nigeria si trova storicamente a dover affrontare serie minacce interne (a partire da Boko Haram). Va tenuto tra l’altro presente che il jihadismo non è l’unico fattore di instabilità nel Sahel e nella aree circostanti: rilevanti rischi nascono anche dagli effetti della crisi alimentare, innescata dall’invasione dell’Ucraina.
Un secondo elemento da considerare con preoccupazione è il rafforzamento dell’influenza sino-russa su ampie parti del continente africano. Pechino ha rafforzato scaltramente i propri legami con Algeri non solo attraverso la diplomazia vaccinale, ma siglando anche un’intesa da 7 miliardi di dollari nel delicato settore dei fertilizzanti. Dall’altra parte, l’Algeria intrattiene solidi legami con la Russia. Poche settimane fa, il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, si è recato in visita nel Paese nordafricano, per incrementare la cooperazione proprio nel settore energetico. Inoltre, non va trascurato che, ad aprile, l’Algeria ha votato contro la risoluzione che sospendeva Mosca dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu. In tutto questo, il Cremlino sta incrementando la propria influenza anche sul Sahel. Il Mali sta infatti scivolando sempre più nell’orbita di Mosca, mentre segnali filorussi emergono anche dal Burkina Faso. Ricordiamo inoltre che, lo scorso agosto, la Russia ha firmato un accordo militare con la Nigeria, in materia di addestramento e fornitura di equipaggiamento bellico.
Tutti questi elementi devono quindi spingere a una riflessione. È giusto che l’Unione europea guardi con interesse alla ripresa del progetto del gasdotto trans-sahariano. Tuttavia l'instabilità e i legami (più o meno diretti) di Algeria, Nigeria e Niger con Russia e Cina devono spingere Bruxelles e Washington ad intraprendere delle politiche maggiormente coraggiose nel continente africano. Non farlo significherebbe isolare l’Occidente. E ritrovarsi ancor di più alla mercé di Mosca e Pechino. Uno scenario, questo, non esattamente allettante.