La Germania tira dritto verso il fallimento energetico dell’Ue
La Germania ha chiuso un’altra centrale nucleare. Ne restano soltanto tre in piedi sul territorio tedesco mentre esplodono tutte le contraddizioni dell’ambientalismo. Senza nucleare aumentano le emissioni, perché Berlino dovrà contare di più su gas e carbone per ottenere lo stesso livello di consumo energetico. Nel frattempo i prezzi dell’elettricità sono saliti vertiginosamente avvicinandosi ai 250 euro/MhW: sono gli effetti delle politiche green e dell’elettrificazione; e del massiccio stimolo pubblico voluto dai governi per riavviare l’economia dopo la pandemia. Nonostante queste difficoltà, la Germania non cambia i propri programmi e va avanti con lo smantellamento del sistema nucleare.
La prima potenza d’Europa, che poggia il proprio primato sull’industria pesante, non è una nazione indipendente sul piano energetico. L’avvento dei Verdi al governo e le pressioni americane hanno rallentato l’inaugurazione del North Stream 2. Allo stesso tempo i contratti di approvvigionamento con Gazprom sono stati ridotti mentre si cercava di liberalizzare il mercato del gas europeo e si sperava nella fornitura americana dello shale gas, che però è andato verso i paesi asiatici. Il risultato è una crisi energetica senza precedenti, con il paese leader del continente che non sa che pesci prendere. La Germania è diventata diplomaticamente fredda con la Russia, dalla quale però non riesce a non dipendere, e con gli Stati Uniti, duri con Berlino per la coltivazione della partnership cinese. Ma al tempo stesso Pechino mette pressione all’industria germanica per modernizzarsi e non perdere quote di mercato.
Le virtù tedesche sono note, ma la flessibilità e la capacità di cambiare le decisioni in corsa non sono tra queste. Presto si vedranno gli effetti della furiosa transizione energetica che Bruxelles ha voluto imporre ai paesi membri. In Francia, solo per il settore dell‘automotive si stima la perdita di 1/3 dei posti di lavoro pari a 55mila unità nei prossimi dieci anni. Italia e Germania seguiranno. Se la politica europea non riuscirà a frenare l’ideologia verde dei burocrati europei le conseguenze saranno gravi: i grandi inquinatori come la Cina vanificheranno gli sforzi dell’ecologismo europeo, migliaia di aziende chiuderanno, la disoccupazione aumenterà e con essa l’inflazione.
Lo spettro della stagflazione non è da sottovalutare per i prossimi anni. La finanza americana ha preteso una nuova bolla da far lievitare, quella green, ed il potere burocratico europeo ha immediatamente colto l’occasione al volo per spingere una rigida pianificazione economica che non ammette deviazioni. Non si salverà il pianeta, non ci sarà rilevante progresso tecnologico, si sconterà una crisi prima energetica e poi forse politica. D’altronde l’ecologismo non viene del mercato e dalla società con spontaneità, ma è frutto di decisioni dirigistiche, di clientelismi e di emergenze a geometria variabile. Segna l’alleanza tra capitalismo finanziario ed interventismo statale e sul piano geopolitico la competizione tecnologica tra Cina e Stati Uniti. L’Europa in mezzo, come sempre più rigida, moralista, burocratica e ideologica degli altri, stritolata dai prezzi energetici e da una transizione verde molto costosa. Se non i tedeschi, chi tirerà il freno d’emergenza?
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