Gli Obama, i veri avversari di Trump
L'ex Presidente e la moglie si sono di fatto presi il Partito Democratico, come i Clinton di qualche anno fa. Biden? Un burattino da manipolare a piacimento
"Gravemente incompetente". Così Donald Trump ha definito Barack Obama, dopo che il suo predecessore aveva criticato la gestione della crisi pandemica da parte della Casa Bianca. Del resto, che il rapporto tra i due non fosse esattamente idilliaco era chiaro già prima che Trump si candidasse alla nomination repubblicana, nel giugno del 2015. Il punto è che, al di là della rivalità personale, questo scontro sta assumendo connotati di natura sempre più politica. E il fatto stesso che il duello tra i presidenti sia tornato in auge proprio in queste settimane evidenzia come Trump consideri ormai Obama il proprio principale avversario in vista delle elezioni del prossimo novembre.
Certo: la Costituzione americana impedisce all'ex presidente democratico di ricandidarsi, avendo lui alle spalle due mandati. Ciononostante va sottolineato che, da quando ha lasciato la Casa Bianca nel gennaio del 2017, Obama abbia mantenuto un significativo protagonismo politico: non solo ha spesso criticato il suo successore ma ha anche preso attivamente parte alla campagna elettorale per le elezioni di metà mandato del 2018. Senza poi trascurare il crescente ruolo che, per quanto ufficiosamente, l'ex presidente si è col tempo ritagliato all'interno del Partito Democratico: un ruolo che è emerso in tutta la sua evidenza soprattutto nel faticoso processo delle attuali primarie democratiche. Non dimentichiamo infatti che, alla base dell'ascesa di Joe Biden, ci sia con ogni probabilità proprio lo zampino di Obama. Lo scorso febbraio, l'ex vicepresidente era un candidato elettoralmente sull'orlo del collasso: un candidato che aveva rimediato disastri a catena in Iowa, New Hampshire e Nevada. Poi, improvvisamente, la resurrezione elettorale: l'establishment dell'asinello si è in fretta e furia compattato attorno a lui, mentre – nel giro di pochi giorni – quasi tutti i suoi rivali alla nomination gli hanno conferito il proprio endorsement. Più o meno contemporaneamente partì una campagna denigratoria nei confronti di Bernie Sanders che, ritrovatosi all'angolo, ha infine ceduto, ritirandosi dalle primarie lo scorso aprile. Guarda caso, Obama aveva più volte sentito telefonicamente il senatore del Vermont nei giorni precedenti al suo passo indietro.
Insomma, approfittando del caos politico che vige nell'asinello, l'ex presidente ha man mano acquisito una crescente influenza interna, che lo ha reso de facto il vero dominus del Partito Democratico. Ciò che rappresentò in termini di potere in questo partito la famiglia Clinton negli anni '90 e nei primi anni 2000 è oggi sempre più incarnato dal nuovo establishment degli Obama: un nuovo establishment che – attenzione – non ha spazzato via quello vecchio. I Clinton continuano ancora oggi infatti a rivestire un ruolo significativo tra le alte sfere dell'asinello e – non a caso – Biden, oltre a quello di Obama, ha ricevuto poche settimane fa anche l'endorsement di Hillary. E' tuttavia il centro di irradiazione del potere che ha iniziato a spostarsi. E adesso è l'immediato predecessore di Trump a condurre principalmente i giochi nei difficili equilibri politici in seno al Partito Democratico (complice anche il fatto che – dopo la débâcle elettorale del 2016 – l'influenza dei Clinton si sia relativamente ridimensionata). E attenzione: perché Obama non si sta limitando a esercitare un peso crescente dentro il partito ma non ha neppure rinunciato a una frequente esposizione politica e mediatica: fattore, questo, non poco insolito per un ex presidente degli Stati Uniti.
E' quindi esattamente in questo senso che Trump sta identificando sempre più Obama come il suo effettivo avversario. Del resto, lo abbiamo visto: senza di lui, la candidatura alla nomination democratica di Biden sarebbe probabilmente naufragata. Anche perché, preso in sé stesso, l'ex vicepresidente è una figura politicamente fragilissima, appartenente a un mondo al tramonto e – proprio per questo – legata inesorabilmente al passato. Basti pensare che, a circa un anno dalla discesa in campo, non abbia trovato miglior messaggio elettorale, se non quello di una (invero poco probabile) "restaurazione" sic et simpliciter dell'obamismo. Non va d'altronde dimenticato che, con ogni probabilità, Biden non abbia neppure rappresentato la prima scelta di Obama. Inizialmente l'ex presidente sembrava infatti interessato a puntare su altri candidati: candidati che – come l'ex deputato texano, Beto O' Rourke, e la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren – hanno tuttavia mostrato una scarsissima fibra elettorale e che, proprio per questo, sono stati costretti al ritiro.
A pensar bene, si potrebbe ritenere che questo ruolo di regista Obama se lo sia ritagliato per salvare un partito – quello democratico – in preda a tumultuose turbolenze intestine. A pensar male, non è invece affatto escludibile che l'ex presidente voglia tirare la volata elettorale a sua moglie Michelle. E' ormai più di un mese che il suo nome circola tra quelli dei papabili candidati alla vicepresidenza a fianco di Biden. Senza poi dimenticare che proprio quest'ultimo abbia promesso, alcune settimane fa, di scegliere una donna come proprio running mate. Dal canto suo, l'ex first lady ha per ora smentito di essere interessata a una discesa in campo. E, a guardar bene, le converrebbe forse attendere il 2024, visto la confusione che regna al momento tra i democratici. Restano però alcuni segnali significativi. In primo luogo, non è un mistero che svariate galassie legate al Partito Democratico stiano chiedendo a gran voce una sua candidatura (si pensi soltanto al reverendo Al Sharpton, uno dei principali punti di riferimento della comunità afroamericana). In secondo luogo, non dimentichiamo il recente documentario di Netflix dedicato a Michelle, che – secondo i maligni – potrebbe costituire una sorta di campagna elettorale sotterranea. Tanto più che, vista l'età avanzata di Biden, sempre i maligni ritengono che l'ex first lady potrebbe ambire addirittura allo scranno presidenziale: non dimentichiamo infatti che – in base a quanto prescrive la Costituzione – in caso di dimissioni, morte o impedimento del presidente è il suo vice a prenderne il posto (si pensi soltanto a Gerald Ford nel 1974 o a Lyndon Johnson nel 1963). Infine, non va neppure trascurato, che – al di là del solo Partito Democratico – l'ex famiglia presidenziale goda di buona reputazione tra gran parte della grande stampa americana, senza poi trascurare gli storici agganci con i colossi tecnologici della Silicon Valley.
Alla luce di tutto questo, è chiaro come – agli occhi di Trump – sia Obama, e non Biden, il vero avversario da battere a novembre. E, in tal senso, l'attuale presidente è deciso a rinverdire la sua classica linea antisistema che, nel 2016, lo aiutò a sconfiggere Hillary Clinton. E' del resto in questo quadro che vengono ad inserirsi gli attuali scontri tra i due presidenti. Ed è sempre in questo quadro che si inseriscono anche le polemiche sull'Obamagate. L'attuale inquilino della Casa Bianca è infatti tornato ad accusare il suo predecessore di aver ordito un vero e proprio complotto ai suoi danni, utilizzando impropriamente l'Fbi e l'intelligence nella costruzione dell'inchiesta Russiagate (inchiesta conclusasi lo scorso anno in una bolla di sapone). In tal senso, Trump – intervenendo domenica su Fox News – ha accusato sia Obama che Biden di essere "corrotti", aggiungendo che, se anche il suo predecessore non avesse direttamente ordinato di spiare il proprio comitato elettorale, non avrebbe comunque potuto non saperne nulla. "Sì, probabilmente [Obama] ha diretto [le agenzie di intelligence], ma se non le ha dirette, sapeva tutto", ha dichiarato il presidente, che ha aggiunto anche un'accusa di doppiopesismo. "Se fossi stato un democratico anziché un repubblicano, penso che tutti sarebbero stati messi in prigione molto tempo fa; e con sentenze di cinquant'anni", ha affermato Trump.
La questione Obamagate si è ulteriormente aggravata, dopo che – pochi giorni fa – è stata resa nota la lista dei funzionari dell'amministrazione Obama che chiesero di svelare l'identità del generale Flynn nelle conversazioni telefoniche intercettate con l'ambasciatore russo, Sergej Kislyak. Generalmente, quando nelle intercettazioni di un target straniero compaiono dei cittadini americani, il nome questi ultimi viene secretato. Tuttavia, previa valida motivazione, può esser chiesto di svelare la loro identità, secondo una procedura definita unmasking ("smascheramento"). Secondo Trump, la lista proverebbe che l'amministrazione Obama stesse indebitamente spiando il proprio comitato elettorale, mentre i democratici ribattono che l' unmasking sia una semplice pratica di routine. Se è vero che tale tipo di richiesta sia in teoria all'ordine del giorno, è altrettanto vero che si riscontrino alcuni aspetti controversi in questo caso specifico. In primo luogo, è probabile che – tra i nomi inclusi nella lista – vi siano i responsabili del fatto che l'esistenza delle conversazioni tra Flynn e Kislyak venne illegalmente riferita al Washington Post, il quale pubblicò la notizia il 12 gennaio 2017, scatenando una bufera sull'amministrazione Trump (che stava per entrare in carica). In secondo luogo, non va trascurato che solitamente a inoltrare la richiesta di unmasking siano funzionari investigativi, mentre nell'elenco compaiono nomi insolitamente "politici": dallo stesso Biden all'allora capo dello staff della Casa Bianca, Denis McDonough. Perché Biden avanzò la richiesta di unmasking il 12 gennaio (ad appena otto giorni dalla scadenza definitiva del suo mandato)? E soprattutto perché McDonough inoltrò la propria il 5 gennaio (lo stesso giorno di un meeting allo studio ovale sul caso Flynn, presieduto da Obama in persona, e sette giorni prima del fatidico articolo del Washington Post)? Qualche punto poco chiaro effettivamente c'è.
Ma alla fine questo iperattivismo di Obama pagherà in termini elettorali? A prima vista, sembrerebbe di sì. L'ex presidente risulta infatti ancora una figura popolare tra buona parte degli elettori democratici. Eppure, guardando più in profondità, la situazione potrebbe rivelarsi ben più complicata. Non va infatti trascurato che un pezzo consistente della sinistra democratica non nutra simpatia per Obama. Un Obama "colpevole" di aver dato il proprio endorsement a Hillary nel 2016, di appoggiare oggi Biden e – soprattutto – di aver messo costantemente i bastoni tra le ruote a Sanders. Gli elettori duri e puri del senatore del Vermont difficilmente perdoneranno tutto questo a Obama. Quel presidente che, spuntato nel 2008 come un outsider antisistema, si è man mano lasciato assorbire da quello stesso establishment a cui aveva dichiarato guerra. Una contraddizione politica, che potrebbe avere delle ripercussioni sulle elezioni del prossimo novembre.