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(Ansa)
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Governo ed esercito a pezzi; Israele un paese in difficoltà

Dimissioni di massa nelle forza armate, ministri che fanno cose senza avvisare Netanyahu, il tutto con la società che richiede con sempre maggior forza la pace ed il rilascio degli ostaggi

Israele sull’orlo di una crisi di nervi. Mentre si rincorrono notizie in merito ai negoziati tra Israele e Hamas per un cessate il fuoco duraturo a Gaza mediato dall’Egitto – il governo di Gerusalemme non ha mandato al Cairo i suoi delegati perché vuole da Hamas l’elenco degli ostaggi ancora vivi, che Hamas rifiuta di consegnare –, il generale Benny Gantz, rivale politico del premier Netanyahu che si è unito al gabinetto di guerra dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, fa le prove generali per diventare il nuovo capo del governo, con la benedizione degli Stati Uniti.

È infatti appena atterrato a Washington per una visita «privata», ufficialmente in quanto capo del partito di Unità Nazionale e non invece come primo ministro supplente. Un’astuzia formale perché il generale possa operare con maggiore libertà. Ad attenderlo nella capitale Usa ci sono una serie di funzionari statunitensi di livello, compresi due incontri al vertice: un faccia a faccia con la vicepresidente Kamala Harris e uno con il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, oltre a riunioni con membri del Congresso sia democratici che repubblicani. Non è tutto: Gantz dovrebbe fare tappa anche nel Regno Unito, ma la notizia per adesso non è confermata.

E non lo è perché Netanyahu è andato su tutte le furie, dato che la mossa del generale non è stata concordata precedentemente con il premier, che difatti ha dato istruzione all’ambasciata israeliana a Washington di non assistere in alcun modo Benny Gantz, ormai sempre più marcatamente suo principale rivale e sicuro sfidante nel governo che verrà.

Un funzionario del partito di Netanyahu, il Likud, ha confermato che il viaggio del generale è stato pianificato senza l’autorizzazione del leader israeliano e che, una volta messo di fronte al fatto compiuto poco prima di partire, Netanyahu avrebbe avuto un «duro scontro» verbale con Gantz, al termine del quale gli avrebbe detto testuale: «Questo Paese ha un solo primo ministro».

Di certo, mentre la guerra prosegue come da programma verso la totale occupazione della Striscia di Gaza, la conduzione delle operazioni terrestri inizia a mostrare le crepe nel suo organo decisionale, appunto il gabinetto di guerra, che non sembra affatto unito e compatto nelle strategie da adottare di qui in avanti: specie dopo la «strage della farina» tra i profughi palestinesi in fila per gli aiuti nel nord di Gaza, dove una raffica di mitra ha provocato oltre 100 morti e rinfocolato critiche feroci sul modo di condurre la guerra da parte del governo di Gerusalemme. I soldati israeliani hanno volontariamente sparato sulla folla? Si chiedono gli osservatori internazionali.

Secondo speculazioni non confermate, lo stesso presidente americano si sarebbe spazientito e rifiuterebbe ormai di parlare al telefono con il primo ministro israeliano, a maggior ragione in seguito all’incidente durante gli aiuti umanitari ai palestinesi che ha coinvolto le Forze di difesa israeliane (Idf). La distanza tra i due leader si starebbe allargando ancor più, essendo Joe Biden ormai convinto che Netanyahu non intenda rispettare gli impegni sugli aiuti garantiti alla popolazione palestinese, ma punti soltanto a schiacciare ogni forma di resistenza, anche civile, a Gaza.

Vero o meno che sia, è ormai sotto gli occhi di tutti come ogni critica a Israele sia stata indirizzata sinora personalmente a Benjamin Netanyahu, in virtù tanto di precedenti dispute politiche interne come dei processi per corruzione e frode che pendono sulla sua testa (liquidati dal premier come un tentativo di farlo fuori dalla politica israeliana per via giudiziaria).

Altrettanto vero, però, è che questo non è più un «governo Netanyahu» ma un «governo di unità nazionale» di cui lo stesso Benny Gantz è parte integrante. E lo è in ragione dell’accordo raggiunto già pochi giorni dopo la strage del 7 ottobre, quando il generale ha acconsentito a formare un gabinetto di guerra con i due leader Gantz e Netanyahu al comando, affiancati dal ministro della Difesa Yoav Gallant, e con l’ex capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot e il ministro per gli Affari strategici Ron Dermer in qualità di osservatori. La Knesset ha approvato, e la risposta israeliana ad Hamas è così potuta cominciare.

Di certo, però, qualcosa nel corso delle settimane di guerra deve essere andato storto, se è vero come è vero che l’Idf – i cui vertici notoriamente rispettano molto più il generale Gantz che non il politico Netanyahu – ha visto una serie impressionante di dimissioni negli ultimi giorni, tra cui quella del contrammiraglio Daniel Hagari, degli ufficiali Merav Granot e Tzupia Moshkovich, e del tenente colonnello Richard Hecht, portavoce dell’Idf per i media esteri.

Le dimissioni di figure così influenti nel sistema informativo delle forze armate israeliane, soprattutto alla luce dello «sgarbo americano» di Gantz al premier Netanyahu, non possono essere dunque derubricate a semplici «motivazioni personali», come invece addotto dalle comunicazioni ufficiali. Al contrario, suggeriscono un disaccordo profondo di vedute e contrasti irrecuperabili proprio nel cuore della macchina bellica israeliana, che pure sin qui ha concordato praticamente ogni mossa.

Al tempo stesso, vale la pena sottolineare come le vedute differenti siano anzitutto una preoccupazione della Casa Bianca. Il che è suggerito da alcune fonti di Washington, secondo cui il presidente Biden non vuole in alcun modo che venga versato ulteriore sangue palestinese. Perché questo, oltre a ledere i diritti umani, pone l’Amministrazione Usa nelle condizione di correità nella morte di quei 30.000 palestinesi, di cui circa due terzi dei quali donne e bambini (dati del Ministero della Sanità di Gaza, che tuttavia è gestito da Hamas e dunque non distingue tra civili e combattenti).

Le priorità per la regione mediorientale degli Stati Uniti nel suo insieme sono, infatti, ben altre rispetto a Israele: anzitutto, preservare il dominio sulle rotte marittime, controllando i principali snodi commerciali e impedendo che altri competitor possano intaccare la supremazia americana (vedi Suez e le tensioni Mar Rosso). A questo assunto segue l’urgenza di portare a compimento gli Accordi di Abramo, per il riconoscimento legale di Israele agli occhi dei Paesi arabi; e da qui discende anche la volontà di pacificazione dell’area per evitare che gli scontri nel Medio Oriente si allarghino a macchia d’olio, cosa che coinvolgerebbe direttamente gli Usa come già in parte sta avvenendo nello Yemen.

A ciò si aggiunga l’impellenza per l’Amministrazione Biden di non esacerbare i toni in patria, dove il tema della guerra Israele-Hamas crescente irritazione da parte dell’opinione pubblica americana, sempre più critica verso Israele e con i democratici che si stanno spostando verso posizioni marcatamente filo-palestinesi. Il che avrà senz’altro un effetto nella corsa alle presidenziali e, di conseguenza, ciò inciderà nel segreto dell’urna. Joe Biden lo sa bene e per questo cerca rimedio.

Ecco, secondo la Casa Bianca tutto questo il governo Netanyahu lo sta sabotando: in particolare, alla Casa Bianca non piace affatto il suo gabinetto, così dominato da falchi ultranazionalisti che rischiano di allargare il conflitto al Libano, alla Cisgiordania e chissà dove ancora. Con la conseguenza di vedere gli stessi Stati Uniti trascinati in una guerra che invece nessuno vuole in America e che rischia di distrarre il governo di Washington dalla partite che più contano: Russia-Ucraina e Cina-Taiwan.

La figura del generale Gantz, in questo senso, funge da contrappeso ai falchi di Netanyahu e il suo apparire più moderato a Washington viene oggi considerata una carta importante da giocare prima che l’intero Medio Oriente s’infiammi. Benny Gantz è stato insomma individuato come la «soluzione ragionevole» per il futuro governo che inevitabilmente nascerà al termine del conflitto.

Anche perché, secondo la maggior parte dei sondaggi, la popolarità di Netanyahu è in calo vertiginoso sin da prima dello scoppio della guerra. Molti israeliani lo ritengono direttamente responsabile per non aver fermato l’attacco terroristico transfrontaliero di Hamas del 7 ottobre, che ha ucciso 1.200 persone, per lo più civili, e lasciato in ostaggio nelle mani dei terroristi circa 250 persone a Gaza, metà delle quali ormai senza più speranza di fare ritorno a casa.

Insomma, con gli ufficiali che gli si ammutinano, con il rivale che vola in America senza il suo permesso, con un’opinione pubblica contro e con una guerra che non sembra poter finire nel breve termine; e, ancora, con la speranza di riportare a casa gli ostaggi che si affievolisce sempre più, Benjamin Netanyahu appare sempre più agli occhi degli americani come l’ostacolo da superare per risolvere la crisi mediorientale più pericolosa degli ultimi trent’anni: «Israele ha avuto il supporto schiacciante della stragrande maggioranza delle nazioni, ma se continua così con questo governo incredibilmente conservatore, perderà il sostegno di tutto il mondo» ha detto pochi giorni fa Biden. Che ovviamente non ha incluso quello dell’alleato americano, che resterà comunque a fianco di Israele, meglio se con Benny Gantz al comando.

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Luciano Tirinnanzi