Guerra in Medio Oriente: si avvicina un cambio di regime in Iran?
(Ansa)
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Guerra in Medio Oriente: si avvicina un cambio di regime in Iran?

Un anno dopo il massacro del 7 ottobre in Israele, il volto del Medio Oriente è ormai cambiato. Gerusalemme si è «espansa» in Palestina e in Libano, mentre i leader di Hamas ed Hezbollah sono stati decapitati. Tutto ciò, in attesa del «colpo grosso» che non soltanto Bibi Netanyahu sogna di appuntarsi al petto da tempo: l’eliminazione degli ayatollah iraniani per fare dell’Iran un Paese laico, guidato da qualunque alternativa che non sia composta da fanatici religiosi la cui principale politica estera sia perseguire la distruzione di Israele. E, a dirla tutta, molti analisti ritengono quel momento prossimo a concretizzarsi. È davvero così?

Di certo, lo sappiamo dal Times of Israel, l’ultima riunione dei vertici della difesa israeliana sulla questione iraniana è stata «decisiva» e il governo Netanyahu avrebbe deciso di attaccare le strutture militari iraniane. Però non le centrali nucleari, per l’ovvia ragione che non soltanto queste ultime sono state costruite sotto terra proprio per evitare di essere bombardate, ma anche perché vi sarebbe il rischio concreto di offrire la scusa al Cremlino di fare altrettanto in Ucraina. Per questo, Washington non darebbe mai luce verde.

Ciò detto, la domanda è lecita: siamo a una svolta in Medio Oriente? Istintivamente verrebbe da dire di sì, considerato che il cosiddetto «Asse della Resistenza» composto da Iran, Hamas ed Hezbollah, ma anche dagli Houthi in Yemen, dal regime siriano e dall’Iraq sciita è oggi «marginalizzato», come sostiene a ragione il politologo e arabista francese Gilles Kepel.

La dirigenza di questo Asse, ancorché monca di alcuni capi militari, per il momento resiste ma è molto indebolita. Anche perché, Kepel lo dice meglio di altri, «la Russia loro alleata si dimostra una potenza molto meno forte di quanto volesse farci credere Putin, totalmente assorbita dalla guerra in Ucraina e incapace di fare sentire la sua voce sugli altri scacchieri».

Insomma, mentre il Libano brucia e l’Iran è sotto la minaccia del fuoco israeliano, Mosca guarda da un’altra parte, impegnata com’è in una guerra d’attrito costosissima e non risolutiva, che non le concede il lusso di investire altrove le proprie risorse militari, nemmeno quando si tratta di inviare mercenari. Così la Cina, che rimprovera agli ayatollah il fatto che le guerre non fanno mai bene al commercio: quando gli Houthi eterodiretti da Teheran hanno attaccato le navi mercantili danneggiando l’intero traffico marittimo verso Suez, a risentirne per prima è stata proprio la Via della Seta del regime mercantile cinese. Che, difatti, come rappresaglia non soltanto ha bloccato l’import del greggio da Teheran, ma ha addirittura riconosciuto la sovranità degli Emirati Arabi su tre isole contese proprio all’Iran nel Golfo. Tutto ciò per far capire agli ayatollah che il sostegno internazionale, anche quando dipende dalla politica, non prescinde però mai dagli affari.

Così, Teheran vive oggi un momento di solitudine e incertezza tali per cui, non potendo contare sull’alleato russo e nemmeno su quello cinese, deve «camminare con le proprie gambe». Il che significa, in termini pratici, che nei palazzi del potere è iniziato un redde rationem che condurrà una élite a prevalere sull’altra.

Da un lato ci sono i clerici politicizzati guidati dalla loro Guida Suprema, Ali Khamenei, fedelissimo di Khomeini ed erede diretto della Rivoluzione islamica che nel 1979 ha precipitato la Persia nel medioevo; dall’altra, vi è la casta militare dei Pasdaran, i Guardiani di quella stessa Rivoluzione islamica che però hanno sempre mantenuto uno spirito critico, se non addirittura un laicismo dietro il quale oggi si potrebbe persino celare un anticlericalismo sommerso. O quantomeno un’insofferenza per una leadership sciita che ha danneggiato il Paese e i loro stessi affari, essendo che i Pasdaran sono i veri detentori del potere economico iraniano, e molti di loro hanno direttamente quote e investimenti in molti dei settori più remunerativi, non solo in quello della difesa.

Da quando poi, il 3 gennaio 2020, il generale Qassem Soleimani è stato ucciso per mano americana in una delle molte campagne militari tra la Siria e l’Iraq, è come se i Pasdaran avessero perso non solo il loro leader e punto di riferimento, ma l’ispirazione stessa per proseguire nel mantenimento del duopolio in Iran.

Lo stesso attacco missilistico «gentile» contro Israele, avvenuto nella notte tra sabato e domenica 14 aprile 2024 come rappresaglia per il bombardamento del consolato dell'Iran a Damasco, ne è ampia dimostrazione: i Pasdaran, forse in opposizione alla volontà stessa della Guida Suprema, non hanno inteso portare un’offensiva micidiale contro Israele, ma hanno scelto la de-escalation e la collaborazione con gli Stati Uniti.

La stessa cosa si è ripetuta all’indomani dell’uccisione deltrentennale leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, polverizzato da un attacco missilistico israeliano che lo ha scovato in uno dei bunker da lui ritenuti più sicuri. Anche in quell’occasione, la rappresaglia iraniana ha mostrato più difetti che pregi nell’ostentare la capacità offensiva del regime.

Probabilmente, i Pasdaran di nuova generazione preferiscono normalizzare le relazioni internazionali, per portare il Medio Oriente nella contemporaneità e dare al proprio Paese quella prosperità che manca da troppo tempo. Una condizione che stridecon chi – vedi Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi – abdicando alle pretese di cancellare Israele e combattere l’America, si è gettata con successo tra le braccia del capitalismo arricchendo sé e il proprio Paese.

Inoltre, i Guardiani della rivoluzione temono l’inarrestabile ondata di proteste laiche contro le restrizioni e vessazioni che gli ayatollah impongono al popolo. Il che nuoce al processo di consolidamento della loro casta quale unica referente del potere assoluto in Iran. Anche perché, con il loro oscurantismo, gli ayatollah hanno messo le nuove generazioni di iraniane e iraniani contro le loro stesse istituzioni.

Forse sarebbero da leggere in questa chiave alcuni «strani» avvenimenti occorsi nella regione: davvero il presidente Ebrahim Raisi – intimamente legato alla Guida Suprema – è stato vittima di un incidente? E, in caso contrario, è più plausibile che ad aver fatto schiantare il suo elicottero siano stati gli israeliani o piuttosto alcuni oppositori interni al regime? E poi, davvero la rete d’intelligence di Gerusalemme era in grado di scovare da sola il più che prudente Nasrallah a Beirut? Ancora: dietro alle uccisioni di tutti gli altri capi di Hamas ed Hezbollah fatti fuori in una sequenza impressionante, c’è soltanto Israele? O qualcuno ha dato loro una mano?

Se quel qualcuno c’è, seguendo il rasoio di Occam - a parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire - si dovrebbe concludere che la cosa più probabile è che ad aiutare Gerusalemme in questo repulisti del Medio Oriente siano stati proprio coloro che più hanno da guadagnare dalla fine dell’Asse della Resistenza: i Pasdaran, consapevoli che ormai l’Iran ha perso ogni protezione e «Stato cuscinetto», e si trova da solo in prima linea contro Israele.

Se davvero le cose stanno così lo scopriremo presto. Di certo, gli ayatollah iniziano a rappresentare un ostacolo alla loro idea di governo. Ma sono di ostacolo anche per gli altri attori della regione. E in particolar modo per le superpotenze americana e cinese, che tutto avrebbero da guadagnare da un Iran forte, prospero e aperto agli investimenti esteri.

In conclusione, come ricordato ancora da Kepel, i militari iraniani si trovano oggi in una posizione simile a quella dei sovietici dopo il ritiro da Kabul nel 1989 e la caduta del muro di Berlino. Lo Stato maggiore pensa che il fanatismo religioso di Khamenei sia stato catastrofico, e molti tra loro desidererebberoun «Gorbaciov iraniano».

Né Israele né l’Iran possono vincere uno scontro diretto. Possono però accordarsi diplomaticamente per portare il Medio Oriente dove merita: nel XXI secolo.

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Luciano Tirinnanzi