La guerra in Ucraina ha già fatto una vittima: la globalizzazione
Israele, Ungheria, Serbia ma anche Italia, Francia ed Usa guardano con sempre maggior attenzione agli interessi nazionali, con buona pace degli altri
La crisi ucraina sta ulteriormente picconando il modello della globalizzazione, spingendo i vari Stati verso una maggiore attenzione al principio dell’interesse nazionale. Il blocco transatlantico è tutt’altro che compatto. Al di là delle prese di posizione ufficiali, il tema delle sanzioni si sta rivelando sempre più divisivo: un problema che non riguarda soltanto i rapporti tra Washington e Bruxelles, ma che si scorge anche all’interno della stessa Unione europea. Basti pensare che, secondo una recente inchiesta di Bloomberg News, le sanzioni occidentali comminate ai principali oligarchi russi sono al momento fondamentalmente scoordinate, oltre che piene di imbarazzanti e contraddittorie scappatoie. Una situazione dettata dal fatto che, tra Stati Uniti, Unione europea e Regno Unito, si sta cercando di evitare dei contraccolpi economici troppo duri. In tutto questo, un ulteriore elemento divisivo riguarda l’energia. Anche in questo caso, le differenze non si riscontrano solo tra Washington e Bruxelles, ma anche in seno alla stessa Ue: basti pensare alle posizioni divergenti tra Francia e Austria.
Dal canto suo, anche la Cina pensa a coltivare i propri interessi, al di là delle dichiarazioni di facciata. Pechino si sta muovendo in modo significativamente spregiudicato, appoggiando di fatto la Russia per indebolire il blocco transatlantico, avere maggiormente mano libera nell’Indo-Pacifico e rendere Mosca economicamente succube del Dragone stesso. Una serie di obiettivi che dovrebbe far riflettere tutti coloro che – a partire da Bruxelles – considerano la Repubblica popolare un mediatore potenzialmente efficace e affidabile: in realtà, i fatti suggeriscono l’esatto opposto. Abbiamo poi la Turchia che, sul fronte dei sempre più difficili negoziati diplomatici, è forse il Paese che finora si è mosso più concretamente. Una concretezza dettata principalmente dagli interessi in ballo di Ankara, che – ricordiamolo – fa parte della Nato, è una storica sostenitrice della sovranità ucraina e – al contempo – intrattiene stretti legami con la Russia nei settori di energia e difesa.
Insomma, tutto questo per dire che il principio dell’interesse nazionale sta tornando ad emergere, mentre – dall’altra parte – il modello della globalizzazione sta entrando in una fase di progressiva precarietà (lo dimostrano anche le recenti vittorie elettorali di Orban in Ungheria e di Vucic in Serbia): si pensi del resto alla crisi energetica o alla crisi alimentare (che si sta già pericolosamente profilando in aree come il Medio Oriente e l’Africa).
Sbaglierebbe tuttavia chi pensasse che questa crisi della globalizzazione sia il frutto delle ultime settimane: si tratta infatti di un processo iniziato ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina. Un primo duro colpo quel modello lo ebbe dalla guerra in Iraq del 2003, per arrivare poi alla crisi finanziaria del 2008. Senza poi ovviamente dimenticare la pandemia del Covid-19, che ha posto drammaticamente al centro dell’attenzione la delicata questione delle catene di approvvigionamento. Tutti passaggi epocali che hanno progressivamente indebolito il modello della globalizzazione, facendo riemergere man mano il principio dell’interesse nazionale. Una conseguenza, questa, di un contesto geopolitico che sta tornando sempre più caotico, sempre più hobbesiano.
Il problema riguarda semmai quei soggetti internazionali che, mentre la tempesta si avvicinava, non hanno agito per tempo. Non serviva la crisi ucraina per capire che il tema dell’autonomia energetica si stava facendo sempre più urgente: questa dinamica era chiara già da alcuni anni (l’alternativa era infatti quella di restare ostaggi di nazioni ostili o instabili: come poi è successo). Eppure l’Unione europea, per scelte sbagliate e in parte ideologiche, si è fatta trovare impreparata, con le conseguenze che stiamo vedendo in questi giorni.
Adesso è quindi necessario un bagno di realismo, in cui la bussola non può non essere quella dell’interesse nazionale. Quell’interesse nazionale che non è – come sostiene qualcuno – becero egoismo particolaristico. L’interesse nazionale deve ovviamente legarsi a una visione valoriale, tenendo conto di scelte di campo internazionali fondate sulla razionalità (per l’Italia non è pensabile né auspicabile una collocazione che non sia quella atlantica). Tra l’altro, l’eccesso di particolarismo crea sovente l’effetto opposto a quello della difesa dell’interesse nazionale, perché – per miopia – questo atteggiamento rischia di spingerci nell’orbita di Paesi come la Cina (i cui obiettivi strategici – lo abbiamo visto – non sono esattamente in linea con quelli occidentali). L’interesse nazionale implica tuttavia la concretezza: la capacità di affrontare i problemi nella loro essenza reale, rifuggendo dall’astrazione e dall’ideologia. Le turbolenze geopolitiche andranno ben oltre la crisi ucraina. E l’assenza di un approccio adatto rischia di rivelarsi fatale per l’Italia, oltre che per l’intera Unione europea. È quindi sulle basi di un sano realismo che andrebbero rilanciate urgentemente le relazioni transatlantiche, scongiurando il rischio dell'orbita cinese.