Harris-Trump: il rischio di un esito incerto, tra riconteggi e accuse di brogli
(Ansa)
Dal Mondo

Harris-Trump: il rischio di un esito incerto, tra riconteggi e accuse di brogli

L’America al voto, con l’incubo delle contestazioni sulle schede elettorali

A una settimana dalle presidenziali più incerte della storia recente, negli Stati Uniti hanno già votato circa 50 milioni di cittadini aventi diritto. Il che corrisponde a quasi un terzo del totale dei 155 milioni che nel 2020 contribuirono a eleggere Joe Biden, registrando uno dei record assoluti di partecipazione nella più cruciale delle competizioni elettorali in America.

Se questa tornata batterà quel primato, è presto per dirlo. Ma – ecco il punto – intanto le contestazioni sono già cominciate. E questo anche perché la Corte Suprema (massimo organo giuridico statunitense, dove i repubblicani hanno una maggioranza schiacciante di 6 giudici a 3) ha appena concesso allo Stato della Virginia di attuare un programma che consente ai funzionari statali di «rimuovere i sospetti non-cittadini dalle liste elettorali». Il che significa non ammettere al voto soggetti che all’apparenza non sembrano avere pieno titolo per votare.

Anche se la Virginia è già assegnata ai repubblicani e non è uno Stato in cui si combatte, non è cioè tra i cosiddetti swing states che possono decidere l’elezione (questi sono: Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, North Carolina, Pennsylvania e Wisconsin, dove i due candidati sono divisi nei sondaggi da meno di un punto percentuale), la cosa potrebbe ripetersi anche per altri Stati.

Già soltanto questo episodio è indicativo del clima che si respira negli Stati Uniti, e prelude a nuove contestazioni sulle assegnazioni di vittoria dei singoli Stati, che con i rispettivi delegati contribuiscono a eleggere il presidente. Questo potrebbe costringere il collegio elettorale del Congresso a uno o più riconteggi già il giorno dopo il voto del 5 novembre, e aprire a una fase d’incertezza politica ed economica, nonché a malumori della popolazione che, se strumentalizzata da una o da ambo le parti, potrebbe scendere in piazza e rendersi persino protagonista di violenze diffuse.

Nel 2020, la battaglia legale che seguì alle richieste di riconteggio in Stati chiave come la Georgia aveva assunto toni così ferocemente politici, che Trump e altri ne approfittarono per alimentare false narrazioni su brogli e tentativi d’impedimento per il presidente allora in carica. «Non ci arrenderemo mai, fermeremo il furto dei voti», aveva tuonato Trump in un comizio organizzato nella capitale dove erano confluiti migliaia di suoi sostenitori. «Siamo qui per chiedere che il Congresso faccia la cosa giusta, e che conti solo gli elettori che sono stati nominati legalmente». E ancora: «Se Mike Pence (il vicepresidente dell’epoca, ndr) fa la cosa giusta vinciamo le elezioni. La presidenza appartiene agli americani».

La cosa, come noto, condusse all’assalto a Capitol Hill in quel famoso 6 gennaio 2021, dove morirono 5 persone e molti furono i feriti. Solo per miracolo la situazione venne ricomposta: dopo ore in cui i sostenitori di Trump erano penetrati nel cuore politico della capitale (bighellonando per i corridoi e nelle aule congressuali, facendosi selfie negli uffici politici di Camera e Senato e, in un caso, addirittura defecando sulla scrivania di un deputato), la folla si sciolse disordinatamente ma pacifica.

Ora, dopo che circa 1.600 registrazioni di elettori – che non erano stati sottoposti a un controllo completo dello status di cittadinanza – sono state annullate, si apre una prima crepa nella granitica macchina elettorale a stelle e strisce. Visto dall’Europa, l’iter elettorale americano appare di per sé macchinoso e vetusto perché, tra le altre cose, quel sistema prevede che, per poter esprimere il proprio voto, ci si debba pre-registrare secondo regole che, peraltro, cambiano di Stato in Stato e sulle quali non è qui opportuno dilungarsi.

Ciò che conta sapere, piuttosto, è che – come affermano fonti ben informate di Washington Dc – in questa tornata vi è il rischio concreto che l’America si svegli senza la certezza di un vincitore, che non si riesca dunque a nominare un nuovo presidente in tempi brevi, e che tutto ciò possa portare non solo a riconteggi e lungaggini burocratiche, ma anche a nuove contestazioni, magari agitando lo spauracchio dei brogli intorno all’esito del voto secondo convenienza.

In una simile eventualità, non è da sottovalutare l’ipotesi secondo cui tali contestazioni potrebbero prolungarsi per mesi, innescando potenzialmente un corto circuito istituzionale e – Dio non voglia – uno scontro aperto tra democratici e repubblicani, o peggio tra pro Trump e anti Trump, che potrebbe anche degenerare in atti violenti.

I precedenti ci sono tutti: per non dire più dell’assalto al Congresso maturato un clima politico ricolmo d’odio, basti citare lo stesso Donald Trump che, insieme ad altri repubblicani, nel 2020 fece leva sulle denunce di voto illegale, a partire dallo Stato della Georgia, per tentare di spiegare la sconfitta di quattro anni fa. Ancora oggi nei suoi comizi Trump usa la carta della «elezione rubata» per coalizzare intorno a sé un vasto consenso. Peraltro, questa strategia sembra funzionare bene e, comunque la si giudichi, ha fatto breccia nelle menti di tanti indecisi, nonostante i casi documentati di voto di non cittadini siano sempre stati estremamente rari, e tantomeno nel 2020 si sono verificati frodi o irregolarità nel voto.

Un recente controllo della Georgia sugli 8,2 milioni di persone iscritte nei registri ha trovato solo 20 non-cittadini registrati, di cui peraltro solo 9 avevano votato. Mentre nel riconteggio manuale delle schede elettorali contestate nel 2020, lo Stato della Georgia ha confermato la vittoria di Joe Biden: dopo il riconteggio di ben 5 milioni di voti, l’ufficio del segretario di Stato confermò che Biden aveva ottenuto il 49,5% delle preferenze contro il 49,3% di Trump: uno scarto di 12.284 voti, pari ad appena lo 0,2% rispetto all’iniziale 0,3% (12.780 voti).

Il caso della Virginia è ovviamente diverso: iniziato ad agosto scorso con un’ordinanza firmata dal governatore della Virginia, il repubblicano Glenn Youngkin, ha semplicemente operato un controllo sui possessori dei requisiti per votare, ora sancito anche dalla Corte Suprema. Lo stesso Donald Trump ha applaudito all’iniziativa della Virginia, definendolo «un modo sensato per garantire che i non cittadini non votino», mentre per l’Amministrazione Biden, il sistema della Virginia ha potenzialmente esautorato un numero imprecisato di cittadini.

La questione è lungi dall’essere conclusa. Anzi, l’incubo del too close to call, cioè di un margine troppo ristretto per assegnare la vittoria di uno Stato a uno o all’altro candidato, è sotto agli occhi e già offre una sponda a chi profetizza frodi e inciuci. Non solo: come nel 2000 potrebbe ripetersi un «caso Florida». All’epoca George W. Bush ottenne il numero di Grandi Elettori dello Stato (25) per soli 537 voti su quasi 6 milioni. E con quei 25 delegati poté superare il numero complessivo di 270 Grandi Elettori che gli valsero la presidenza. Questo scenario, ancor più delle violenze e della «guerra civile», non è affatto improbabile che si possa ripetere ancora nel 2024. Specialmente considerato che il margine di distacco tra Kamala Harris e Donald Trump nel suo insieme è inferiore al 3%. Too close to call.

TUTTE LE NEWS DAL MONDO

I più letti

avatar-icon

Luciano Tirinnanzi