Hillary Clinton, la perdente, nuova idea dei democratici Usa per la Casa Bianca
E' iniziata a circolare con insistenza l'ipotesi di una nuova candidatura presidenziale dell'ex first lady. Una scelta che racconta il periodo di difficoltà dei dem con Biden in piena crisi di idee, risultati e consensi
Sembra incredibile, ma non è uno scherzo. Qualcuno in America sta iniziando a ventilare l’ipotesi di una candidatura presidenziale di Hillary Clinton nel 2024. Ad esprimersi in tal senso, è stato soprattutto un recente editoriale apparso sul Wall Street Journal. “[Hillary Clinton] si trova già in una posizione vantaggiosa per diventare la candidata democratica del 2024”, si legge nell’articolo. “È una figura nazionale esperta che è più giovane del signor Biden e può offrire un approccio diverso da quello disorganizzato e impopolare che il partito sta attualmente adottando”. In particolare, secondo questa analisi, l’ex first lady potrebbe essere avvantaggiata da un’eventuale (e non certo improbabile) catastrofe del Partito democratico alle elezioni di metà mandato che si terranno il prossimo novembre.
Attenzione: il punto fondamentale dell’argomentazione non è del tutto campato in aria. Gli autori dell’editoriale mettono infatti in luce che l’Asinello si sia spostato eccessivamente a sinistra, imbracciando delle posizioni controproducenti (situazione, questa, ampiamente dimostrata dalla sconfitta dei democratici in occasione delle ultime elezioni governatoriali in Virginia, lo scorso novembre). Il problema di questa analisi sta tuttavia nella soluzione proposta. E’ pur vero che la Clinton appartenga storicamente all’ala centrista del Partito democratico. Ma una sua eventuale nuova candidatura presidenziale risulterebbe ricca di elementi problematici.
Innanzitutto l’ex first lady ha già dimostrato in passato di incontrare significative difficoltà nell’entrare in sintonia con l’elettorato. In questo senso, va ricordata non solo la sconfitta alle presidenziali del 2016 contro Donald Trump, ma anche la disfatta alle primarie democratiche del 2008 contro Barack Obama. In entrambi i casi, la Clinton rimase vittima di una campagna elettorale fondamentalmente legata al passato, non riuscendo a comprendere l’evoluzione dell’elettorato americano. In entrambi i casi, commise anche l’errore di ritenere la presidenza quasi un diritto dinastico, sottovalutando gli avversari e dando per scontate troppe cose: un atteggiamento, questo, che le si è ritorto contro.
In secondo luogo, l’ex first lady sconta una significativa impopolarità in ampie quote dell’elettorato statunitense. Il nodo non riguarda solo i repubblicani, ma anche gli indipendenti e vari settori della stessa galassia democratica. Una delle ragioni per cui perse nel 2016 fu d'altronde da ricercarsi nel fatto che alcune migliaia di elettori di Bernie Sanders, negli Stati chiave, votarono alla fine per Trump. Se è vero che il Partito democratico si è spostato troppo a sinistra in questi ultimi anni, è altrettanto vero che la Clinton non sarebbe minimamente un nome in grado di federare e pacificare un Asinello oggi più dilaniato che mai. Piacciano o no, le correnti della sinistra sono fondamentali al partito per mantenere il controllo della Casa Bianca, a meno che il prossimo candidato presidenziale dem non si riveli capace di strappare elettori ai repubblicani: uno scenario, questo, al momento difficilmente immaginabile, a maggior ragione se a scendere in campo dovesse essere proprio l'ex first lady.
Si pone infine un problema più generale. Uno dei grandi nodi che caratterizzano oggi l’Asinello è proprio l’asfittico controllo che una parte consistente del network clintoniano continua a esercitare sul partito, impedendone di fatto un autentico ricambio della classe dirigente. E non parliamo soltanto di questioni anagrafiche, ma – soprattutto – di legami, equilibri, idee. Il team di politica estera oggi in forze alla Casa Bianca è fondamentalmente clintoniano: clintoniano di ferro è, per esempio, l’attuale consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e vicino a quel mondo è anche l’attuale segretario di Stato americano, Tony Blinken. Profili giovani, ma dalle idee vecchie. Profili che, nonostante la retorica della competenza e i loro stretti legami all’establishment, hanno mostrato significativi limiti politici (si pensi soltanto alla disastrosa gestione della crisi afghana). Finché non si libererà da questa cristallizzazione, il Partito democratico ben difficilmente riuscirà a rinnovarsi e a trovare dei quadri in grado di farlo uscire dal pantano in cui è piombato.
Del resto, per arginare la deriva ideologica a sinistra, la soluzione non è quella di rifugiarsi (ancora una volta) all’ombra di un establishment stantio e impopolare. No: la soluzione per i dem sarebbe semmai quella di trovare una leadership autenticamente populista. Lo sappiamo: a leggere “populista” qualcuno storcerà il naso. Eppure va ricordato che storicamente la categoria del “populismo” è connaturata alla storia politica statunitense, essendosi di volta in volta incarnata – ben prima di Trump – in presidenti di vario colore politico: da Andrew Jackson a Franklin D. Roosevelt, per arrivare a Richard Nixon e allo stesso Ronald Reagan. Presidenti ovviamente di epoche e idee differenti, ma che hanno tutti presentato un deciso tratto di opposizione all’establishment politico-economico e una maggiore attenzione alle esigenze della working class. Ebbene, per quanto contro-intuitivo ciò possa apparire, solo una leadership populista sarebbe oggi in grado di gettare un ponte tra l’ala moderata e quella di sinistra del Partito democratico, normalizzando così quella dialettica feroce che finora sta creando solo divisioni sempre più insanabili. Alla luce di questo, la Clinton non sarebbe quindi una soluzione. Ingigantirebbe soltanto il problema.