Hong Kong torna a dividere Washington e Pechino
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Hong Kong torna a dividere Washington e Pechino

Gli scontri violenti di piazza di questi giorni nell'ex colonia irrompe nella campagna elettorale americana. Ma Trump deve fare attenzione alla guerra dei dazi

E' di nuovo braccio di ferro tra Hong Kong e Pechino. La settimana scorsa, la Repubblica Popolare ha avanzato una bozza di legge, finalizzata al rafforzamento della sicurezza nazionale nell'ex colonia britannica. In particolare, la proposta introdurrebbe dure sanzioni per eventuali tentativi secessionisti e l'istituzione sul territorio di Hong Kong di basi delle agenzie d'intelligence cinesi: uno scenario che gli attivisti pro democrazia non sono tuttavia disposti ad accettare. E, non a caso, negli ultimi giorni sono tornate energiche proteste: proteste che hanno condotto a centinaia di arresti. La ragione di queste nuove tensioni risiede nel fatto che, in base all'articolo 23 della costituzione di Hong Kong, la città dovrebbe impegnarsi a varare una legislazione volta a reprimere eventuali progetti secessionisti ai danni della Cina: una legislazione che, ad oggi, l'ex colonia britannica non ha tuttavia emanato. La città è infatti innanzitutto profondamente gelosa della propria autonomia (sancita dalla formula "un Paese, due sistemi"). In secondo luogo, la proposta di legge cinese dovrebbe essere approvata aggirando il consueto processo legislativo di Hong Kong: un ulteriore fattore che, nell'ex colonia, viene visto come il fumo negli occhi. Ricordiamo, tra l'altro, che già nel 2003 la Repubblica Popolare aveva tentato di imporre il pieno rispetto dell'articolo 23. Ciononostante i cinesi furono costretti a fare un passo indietro, a causa di poderose proteste che portarono a scendere in piazza mezzo milione di persone.

Le nuove tensioni stanno agendo come benzina sul fuoco nelle già complicate relazioni tra Stati Uniti e Cina. Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha certificato al Congresso che Hong Kong non risulti di fatto più autonoma da Pechino. "Nessuna persona ragionevole può affermare oggi che Hong Kong mantiene un alto grado di autonomia dalla Cina, dati i fatti sul campo", ha dichiarato. La mossa di Pompeo potrebbe avere delle ripercussioni considerevoli: è infatti altamente probabile che l'ex colonia britannica perda lo status speciale che le consente di funzionare come un hub finanziario internazionale, così come non possono essere escluse sanzioni americane. Bisognerà adesso attendere che cosa avrà intenzione di fare Donald Trump, visto che – come sottolineato dalla Cnn – la certificazione del segretario di Stato non avvia di per sé processi automatici. E' inoltre abbastanza evidente che la Casa Bianca si stia muovendo di concerto con Taiwan: appena mercoledì scorso, la sua presidentessa, Tsai Ing-wen, ha infatti garantito un piano per aiutare i cittadini di Hong Kong a trasferirsi sull'isola. La posizione americana – neanche a dirlo – è stata duramente attaccata da Pechino, che ha denunciato illecite interferenze in quella che considera una questione di politica interna. Insomma, il dossier Hong Kong apre un ulteriore fronte di scontro tra Stati Uniti e Cina. Nelle ultime settimane, i due Paesi erano già arrivati ai ferri corti sulla questione della gestione dell'epidemia del coronavirus. Una questione cui si legano altri temi particolarmente caldi (a partire dai difficili rapporti tra la Casa Bianca e l'Organizzazione mondiale della sanità, accusata da Trump di essere una "marionetta della Cina").

La turbolenza tra le due potenze sembra ormai farsi sempre più acuta. E, a prima vista, entrambe parrebbero avere buoni motivi per cercare lo scontro. In primo luogo, Pechino mira a mantenere una postura energica nei confronti di Washington, soprattutto dopo le polemiche che hanno caratterizzato la recente World Health Assembly: puntare nuovamente i riflettori su Hong Kong consente quindi al presidente cinese, Xi Jinping, di tenere in piedi un confronto serrato con gli americani. Senza poi dimenticare che, secondo non pochi analisti, la pandemia avrebbe determinato una crescente insofferenza tra la popolazione cinese verso il governo di Pechino. La linea dura verso l'ex colonia britannica potrebbe quindi essere anche interpretata come uno strumento, adottato dal Partito comunista cinese, per garantire un compattamento politico interno. In secondo luogo, non bisogna trascurare che negli Stati Uniti si stiano avvicinando le elezioni presidenziali di novembre. Recenti sondaggi del Pew Research Center e di Politico hanno mostrato come tra gli americani, a causa del coronavirus, sia fortemente cresciuto un deciso sentimento anticinese: un fattore che, nell'ambito dell'attuale campagna elettorale, non può ovviamente essere eluso. E' del resto esattamente in questo senso che, ormai da settimane, Trump e il suo (probabile) avversario democratico, Joe Biden, si stanno reciprocamente accusando di appeasement verso Pechino. Alla luce di tutto questo, è quindi ipotizzabile che nei prossimi mesi Trump sposi la linea dura del Dipartimento di Stato e che si avvii verso un deciso scontro con la Repubblica Popolare.

Eppure non è detto che le cose vadano esattamente in questo modo. Se le tensioni che dividono al momento Stati Uniti e Cina sono innegabilmente gravi, è altrettanto vero che – a ben guardare – non è automatica la deflagrazione di una crisi irreversibile. Non dimentichiamo infatti che Washington e Pechino abbiano ancora aperta una delicatissima partita in materia commerciale. Lo scorso gennaio, i due Paesi avevano infatti siglato un accordo commerciale di "fase uno", che avrebbe dovuto preludere a un deciso allentamento della guerra dei dazi, in atto da luglio del 2018. Va da sé che un'eventuale rottura dei rapporti tra Stati Uniti e Cina finirebbe col comportare il naufragio di quell'intesa e conseguentemente una vivida recrudescenza tariffaria. E' pur vero che Pechino, al momento, è lontanissima dall'ottemperare ai termini dell'accordo, così come è anche vero che Trump abbia recentemente espresso disappunto per questa situazione. Non si può tuttavia trascurare che un'eventuale ripresa in grande stile della guerra dei dazi costituisca, sulla carta, uno scenario oggi temuto sia dalla Cina che dagli stessi Stati Uniti. La crisi pandemica ha infatti prodotto impatti assai negativi sulle economie dei due Paesi. Se il comparto manifatturiero della Repubblica Popolare ha subìto un duro colpo, il tasso di disoccupazione americano è schizzato al momento alle stelle. Un eventuale inasprimento della guerra dei dazi potrebbe quindi rivelarsi difficilmente sostenibile per entrambi i Paesi. E questo fattore potrebbe quindi impedire un completo deragliamento dei rapporti tra Washington e Pechino.

In tutto ciò, non dobbiamo tra l'altro dimenticare che storicamente l'approccio di Trump nei confronti della Cina sia stato sempre improntato a una Realpolitik di stampo kissingeriano. Pur nella durezza del confronto, l'inquilino della Casa Bianca si è costantemente mosso infatti nel binario di un netto realismo, finalizzato alla salvaguardia dell'interesse nazionale piuttosto che alla tutela dei diritti umani. E' anche per questa ragione che, l'anno scorso, Trump non sembrò poi troppo interessato alla questione delle proteste di Hong Kong sulla legge per l'estradizione: proprio perché temeva che, concentrandosi su quel dossier, i negoziati commerciali con Pechino sarebbero potuti saltare. Tale posizione attirò al presidente svariate critiche da diversi ambienti della politica americana. E soltanto alla fine le fratture vennero ricomposte, quando – a novembre – Trump si decise a porre la sua firma sull'Hong Kong Human Rights and Democracy Act: una legge, approvata in modo bipartisan dal Congresso, che si poneva in modo molto duro nei confronti di Pechino.

Non è facile immaginare come il presidente americano sceglierà di muoversi nelle prossime settimane. Non è tuttavia escludibile che opterà per una strategia altalenante che, pur non rinunciando alla linea dura su determinati dossier, eviti comunque una rottura totale nei confronti di Pechino. Certo: Trump non può non tener conto dei sentimenti dell'elettorato americano, così come non può non tener conto di alcune manovre oggettivamente opache del governo cinese. Ma deve anche fare attenzione, perché gettare alle ortiche l'accordo commerciale di fase uno potrebbe creargli difficoltà proprio in un eventuale secondo mandato presidenziale: un secondo mandato in cui la questione commerciale nelle relazioni con la Cina tornerebbe prevedibilmente centrale. Anche per questo, più che i dazi, la nuova frontiera dello scontro economico con la Repubblica Popolare potrebbe ben presto essere rappresentata da un altro ambito: quello delle catene di approvvigionamento. Non è un mistero infatti che, da alcune settimane, il Dipartimento di Stato e il Dipartimento del Commercio americani stiano studiando la possibilità di far sì che le grandi aziende statunitensi, che producono in Cina, si spostino o in territorio americano o in alcuni Paesi amici (il cosiddetto Economic Prosperity Network). La mossa permetterebbe, in caso, alla Casa Bianca di mantenere vigoroso il confronto economico con Pechino, evitando al contempo una ripresa energica della guerra tariffaria. Tuttavia, per quanto il livello della tensione potrà alzarsi nelle prossime settimane, Trump continuerà probabilmente a muoversi nel proprio binario realista, nutrendo scetticismo verso la globalizzazione e le sue astrazioni. Nel 2000, Bill Clinton si disse convinto che, coinvolgendola finalmente nell'Organizzazione mondiale del commercio, la Cina si sarebbe avviata verso un percorso di "diritti umani e libertà politica". Oggi sappiamo che non è andata così. E Trump ne sta traendo le conseguenze.

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Stefano Graziosi