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(Ansa)
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Hunter Biden è sempre più nei guai (e anche suo padre)

Tira una brutta aria per il figlio del presidente americano: è emerso che è ancora sotto indagine, mentre il suo accordo di patteggiamento è stato sospeso. Circostanze spinose che mettono a rischio anche la rielezione del genitore

Le cose si stanno mettendo veramente male per Hunter Biden. Mercoledì è stato infatti sospeso l’accordo di patteggiamento che aveva raggiunto il mese scorso con la procura federale del Delaware, in riferimento a due reati fiscali commessi nel 2017 e nel 2018. Un accordo che, tra l’altro, includeva anche una mediazione extragiudiziale in relazione all’accusa di possesso illecito di armi da fuoco. Nel complesso, l’intesa puntava innanzitutto a far sì che Hunter potesse evitare il carcere (rischia infatti fino a un totale di 24 mesi per le prime due accuse e fino a dieci anni per la seconda). Inoltre, l’obiettivo dei suoi avvocati era quello di ottenere che il loro assistito fosse al sicuro da eventuali incriminazioni future.

Eppure, durante l’udienza di mercoledì, è saltato tutto. La svolta è avvenuta soprattutto dopo che, dietro esplicita domanda del giudice distrettuale Maryellen Noreika, la procura ha rivelato che il figlio del presidente è ancora sotto indagine: un'indagine che si sta concentrando su sue potenziali violazioni del Foreign Agents Registration Act (la legge che impone ai lobbisti che lavorano per entità straniere di registrarsi). Una circostanza, questa, che mette nuovamente sotto i riflettori i controversi affari internazionali che, negli anni, Hunter Biden ha portato avanti soprattutto in Cina, Ucraina e Russia. È così che, nel corso dell’udienza, l’accordo di patteggiamento è stato prima bloccato e poi riformulato in una versione ridimensionata: una versione che, secondo quanto riportato dalla Cnn, lasciava esplicitamente aperta la possibilità che il figlio di Joe Biden potesse essere incriminato in futuro. Infine, si è registrato un ultimo colpo di scena: la Noreika ha infatti detto di non poter accettare la nuova versione dell’accordo, temendo che potesse rivelarsi incostituzionale. Ha quindi dato alle parti 30 giorni di tempo, per depositare “ulteriori memorie che spiegassero la struttura legale del patteggiamento”.

L’amministrazione Biden, neanche a dirlo, è sprofondata nell’imbarazzo. “Hunter Biden è un privato cittadino, e questa era una questione personale per lui. Come abbiamo detto, il presidente, la first lady, amano il loro figlio e lo sostengono mentre continua a ricostruire la sua vita”, si è limitata a dire l’addetta stampa della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre. Ora, Hunter sarà pure un privato cittadino, ma è chiaro che il naufragio del patteggiamento rappresenta un duro colpo politico per lo stesso Joe Biden. Gli avvocati di Hunter speravano che, con questo accordo, tutte le sue controversie giudiziarie si sarebbero chiuse. Una speranza infrantasi, come abbiamo visto, dopo che è emerso che il figlio del presidente è ancora oggetto d’indagine federale, assai probabilmente per i suoi opachi affari all’estero. Si tratta evidentemente di una spada di Damocle sul capo dell’attuale presidente americano. Non dimentichiamo infatti che i deputati repubblicani hanno avviato da tempo delle indagini parlamentari proprio su questo spinosissimo tema. Era del resto maggio scorso, quando il presidente della commissione Sorveglianza della Camera, James Comer, dichiarò in una nota che “i registri bancari mostrano che la famiglia Biden, i suoi soci in affari e le loro società hanno ricevuto oltre dieci milioni di dollari da cittadini stranieri e dalle loro società collegate”.

Tuttavia, da questo punto di vista, l’aspetto più interessante è un altro. E riguarda l’ormai noto documento dell’Fbi, secondo cui Joe e Hunter avrebbero ricevuto cinque milioni di dollari a testa dal fondatore dell'azienda ucraina Burisma, Mykola Zlochevsky, per ottenere il siluramento dell’allora procuratore generale ucraino, Viktor Shokin. Ebbene, quando rivelò l’esistenza di questo incartamento, Comer riferì non solo che si basava sulla denuncia di un informatore che il Bureau riteneva “altamente credibile” ma anche che tale documento fosse utilizzato in una “indagine in corso”. Ora, il fatto che la procura abbia rivelato che Hunter è ancora sotto investigazione porta a supporre che si tratti proprio della stessa indagine. A peggiorare potenzialmente le cose per i Biden sta il fatto che a giorni dovrebbe testimoniare alla Camera Devon Archer: ex socio storico di Hunter che, secondo le anticipazioni del New York Post, sarebbe pronto a riferire che lo stesso Hunter avrebbe messo in contatto il padre (ai tempi della vicepresidenza) con propri soci in affari almeno due dozzine di volte. Va da sé che, se ciò dovesse essere confermato, per il presidente in carica sarebbe un gravissimo imbarazzo. Era infatti settembre del 2019, quando Biden disse: “Non ho mai parlato con mio figlio dei suoi rapporti d'affari all'estero”.

È chiaro come tutta questa intricata vicenda possa creare notevoli problemi alle chances di rielezione dell’attuale presidente americano. Né si può dire che il giudice Noreika abbia voluto mettere i bastoni tra le ruote ad Hunter per favorire Donald Trump. È infatti vero che costei fu nominata dall'ex presidente repubblicano nel 2017, ma il sostegno che ottenne in sede di ratifica al Senato fu significativamente bipartisan. Senza contare che, nel 2008, la diretta interessa effettuò donazioni alla campagna elettorale di Hillary Clinton. Non stiamo parlando quindi di una togata dalla fede politica esattamente trumpista. A maggior ragione, il fatto che l’accordo di patteggiamento sia miseramente naufragato consoliderà la narrazione dei repubblicani, che accusano da tempo il Dipartimento di Giustizia di doppiopesismo, opacità e politicizzazione (soprattutto dopo le recenti accuse di interferenza nell'indagine penale su Hunter arrivate da due informatori dell'Agenzia delle entrate statunitense). Si tratta di un quadro complessivo che rafforza indirettamente anche Trump, il quale sta per essere incriminato una seconda volta dal procuratore speciale Jack Smith. Un Trump che avrà adesso buon gioco nel cavalcare nuovamente la tesi della persecuzione politico-giudiziaria.

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Stefano Graziosi