Il ritorno di Donald Trump
Donald Trump torna alla Casa Bianca: un trionfo tra strategie e nuove alleanze
Donald Trump è ufficialmente presidente in pectore degli Stati Uniti. Secondo Politico, il tycoon ha conquistato almeno 277 grandi elettori, superando così la fatidica soglia dei 270 necessari per arrivare alla Casa Bianca. Non solo. Trump ha anche ottenuto la maggioranza nel voto popolare: l’ultimo candidato repubblicano a conseguire questo risultato era stato George W. Bush nel 2004. Il magnate si avvia quindi a essere il primo presidente americano, dopo Grover Cleveland, a effettuare due mandati non consecutivi.
“Questo è stato, credo, il più grande movimento politico di tutti i tempi. Non c'è mai stato niente del genere in questo Paese, e forse anche oltre. E ora raggiungerà un nuovo livello di importanza perché aiuteremo il nostro Paese a guarire”, ha dichiarato nel discorso per la vittoria. “Aiuteremo il nostro Paese qui. Abbiamo un Paese che ha bisogno di aiuto, e ne ha un disperato bisogno. Sistemeremo i nostri confini. Sistemeremo tutto del nostro Paese e abbiamo fatto la storia per un motivo stasera. E il motivo sarà proprio questo. Abbiamo superato ostacoli che nessuno pensava possibili”, ha proseguito. “Combatterò per voi, per la vostra famiglia e per il vostro futuro. Ogni singolo giorno, combatterò per voi”, ha continuato.
In particolare, Trump si è aggiudicato la vittoria, espugnando innanzitutto tre dei sette Stati chiave: Pennsylvania, North Carolina e Georgia. Un terzetto, questo, che gli ha garantito il successo dopo alcune ore dall’inizio dello spoglio. Ma il tycoon non si è fermato qui. Ha anche conquistato il Wisconsin e si aggiudicherà probabilmente anche Michigan, Nevada e Arizona. Questo vuol dire che Trump è riuscito a espandere il suo messaggio al di là dei soli colletti blu della Rust Belt.
Ricordiamo infatti che gli hinterland delle grandi città in Georgia e North Carolina sono tendenzialmente benestanti e abitati da colletti bianchi: si tratta di feudi storicamente repubblicani che tuttavia, nel 2020, avevano voltato le spalle a Trump. Con la vittoria di ieri, il tycoon è stato in altre parole capace di costruire una coalizione interclassista e multirazziale. L’ex presidente si è infatti rivelato in grado di rosicchiare significativi margini di voto afroamericano e ispanico.
Dal canto suo, la Harris ha scontato problemi strutturali ed errori rilevanti. Ritrovatasi candidata presidenziale all’improvviso, senza investitura popolare e a soli tre mesi dal voto, la vicepresidente non si è rivelata capace di impostare in modo solido la propria campagna, rimanendo inoltre zavorrata dall’impopolarità di Joe Biden. Tutto questo, senza trascurare alcuni errori strategici rilevanti: dall’aver scelto un vice politicamente insignificante come Tim Walz all’aver evitato le interviste giornalistiche per tutto il primo mese di campagna: un comportamento che ha aumentato i sospetti tra gli elettori e l’astio da parte di quegli stessi media che, almeno in un primo momento, non le erano granché ostili.
Infine attenzione al Congresso: il Senato è tornato a maggioranza repubblicana, mentre per la Camera bisogna ancora attendere (nonostante sembri probabile che possa restare sotto il controllo del Gop). È chiaro che il Partito democratico è adesso destinato a entrare in una fase di resa dei conti interna: una resa dei conti che, secondo i beninformati, era cominciata addirittura prima dell’Election Day. Non è tuttavia detto che, in prospettiva, questa situazione non faccia bene ai dem. Una traversata nel deserto favorisce la dialettica interna. E potrebbe aiutare finalmente l’Asinello ad archiviare quel vecchio establishment che lo ha appena portato alla rovina. Perché alla fine è quello che è successo è stato un cinico gioco al massacro. Prima hanno brutalmente silurato Biden. Poi, altrettanto brutalmente, hanno mandato la Harris elettoralmente a sbattere.