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(Ansa)
Dal Mondo

Invasione Libano il sostegno complice dei Paesi Arabi

Il silenzio dei Paesi arabi seguìto alla morte del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e poi proseguito con l’invasione del Libano del Sud (e incursioni in Yemen e nel Golfo di Aden), la dice fin troppo lunga sul vero sentimento che cova nell’intero Medio Oriente. Perché nessuno si lamenta o minaccia più Gerusalemme? Come mai in Siria e in certe zone dell’Iran e del Libano stesso, l’annuncio della morte del leader veniva salutato addirittura con cortei di giubilo? Come mai Washington Dc non ha usato la sua forza diplomatica per impedire o quantomeno condannare lo sconfinamento terrestre delle truppe israeliane?

Forse perché ci siamo affrettati troppo a leggere ogni singola azione di Israele – per quanto brutale –, come una follia senza criterio che il governo Netanyahu, obnubilato dalla sete di vendetta e nient’altro, portava avanti contro tutto e tutti. Invece, con il passare delle ore e dei giorni si scopre che, intanto, il cosiddetto «asse della resistenza» - com’era stato definito dagli ayatollah iraniani il connubio di milizie sciite nel quadrangolo Iran, Iraq, Siria, Libano - è in una fase talmente declinante che gli attacchi terroristici del 7 ottobre 2023 sono forse stati il canto del cigno di quell’alleanza jihadista che per decenni ha terrorizzato la regione e alimentato fiumi di sangue.

E poi, che più di un capo di Stato del Medio Oriente non disdegna affatto il pugno di ferro di Bibi Netanyahu, che «sta facendo il lavoro sporco al posto nostro» come ha riferito una fonte d’intelligence araba forse esagerando un po’. Tra meno di una settimana, in ogni caso, come noto ricorre il primo anniversario delle stragi di Hamas ai danni degli israeliani; forse allora si potrà fare un primo credibile bilancio su come i due grandi protagonisti dello scontro – ideologico non meno che religioso e politico-economico – stiano affrontando e gestendo la crisi.

Intanto, però, si possono già enucleare alcune certezze: l’apparente umiliazione dell’intelligence israeliana, che si era fatta sorprendere dai jihadisti palestinesi e non sembrava aver compreso quanto concreta fosse la minaccia nei mesi precedenti al 7 ottobre, adesso assume una luce ben diversa: quella cioè di una rivincita sul campo che al tempo stesso si fa severa punizione. L’esplosione sincronizzata di telefonini, walkie talkie e dispositivi wireless in dotazione ai miliziani di Hezbollah, per dire, è stata un’operazione che rimarrà nella storia dei servizi segreti per originalità ed efficacia: in un solo colpo, infatti, Gerusalemme ha decapitato l’intera catena di comando, mettendo al buio la linea logistica e delle comunicazioni dei miliziani libanesi. Il tutto, ora si è compreso, era preludio all’uccisione del leader più stimato, sfuggente e protetto dell’«asse della resistenza», appunto Hassan Nasrallah.

Non solo. Già al tempo dell’attacco israeliano al consolato iraniano a Damasco dello scorso aprile, l’azione dell’Idf (le forze di difesa di Israele) fu dipinta dai più come un’escalation insensata tra Teheran e Gerusalemme che avrebbe condotto i due arci nemici a uno scontro diretto. Invece, proprio allora si è capito come il re fosse nudo. Il re in questo caso è il teocrate che torreggia sulla Persia, ovvero l’ayatollah Ali Khamenei: di fronte al precipitare degli eventi, la Guida Suprema si è mostrata così impotente, tanto in patria – con le donne che guidano l’emancipazione della società iraniana e con il resto del popolo che manifesta insieme a loro nelle piazze, alimentando le speranze di secolarizzazione iranica – quanto all’estero, che è sempre più nutrito il fronte di chi sostiene che la sconfitta del clero sciita che comanda a Teheran non sia più impensabile.

Teheran, a dire il vero, come risposta alla provocazione dell’Idf al tempo aveva lanciato contro Israele un massiccio attacco con dozzine di droni e missili, ma l’aviazione e i sistemi di difesa israeliani avevano neutralizzato il 99% dei circa 300 proiettili lanciati dall’Asia centrale. Risultato? Un’umiliazione cocente per gli stessi pasdaran, le forze dell’élite militare che condividono il potere con gli ayatollah, i quali hanno reso chiaro al mondo che le loro armi nel caso di un confronto diretto sono spuntate. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, dopo quella serie di scambi di missili, aveva confermato che lo Stato di Israele era «pronto per qualsiasi scenario». Cosa intendesse, lo abbiamo ormai capito.

Infatti, mentre in queste ore le truppe israeliane stanno infine entrando nel Libano del Sud senza incontrare resistenza – l’esercito di Beirut si è ritirato e così i caschi blu Onu –, il mondo inizia a comprendere meglio cosa stia davvero succedendo in Medio Oriente: l’invasione di Gaza era solo l’antipasto di un regolamento dei conti generale che non solo Netanyahu, i sionisti, gli ebrei ultraortodossi e i falchi israeliani desideravano. A volerlo sono anche gli altri Stati arabi, che non solo non hanno preso le difese di palestinesi e libanesi, ma c’è la concreta possibilità che si siano resi complici del repulisti di quegli elementi ormai scomodi e anacronistici per chi – come Arabia Saudita, Giordania, Emirati, Qatar e lo stesso Iran – desidera fare del Medio Oriente una regione economicamente sviluppata e prospera.

Basterebbe rileggere le parole pronunciate dal principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammed Bin Salman, sulla leadership dell’Iran, per capirlo: «Khamenei è il nuovo Hitler. Lui si vuole espandere e realizzare il suo progetto in modo molto simile a Hitler che, al tempo, voleva, espandersi in Europa. Molte nazioni in tutto il mondo e in Europa non si rendevano conto di quanto Hitler fosse pericoloso e io non voglio che accadano simili eventi in Medio Oriente».

E ancora, a proposito della Palestina il principe ereditario, durante una visita del Segretario di Stato Usa in Arabia Saudita lo scorso gennaio, aveva detto testuale: «Se mi interessa personalmente la questione palestinese? A me no», aggiungendo che il 70% della popolazione saudita «è più giovane di me» e dunque non ha mai sentito neanche parlare della questione palestinese.

Se alle parole della leadership saudita si aggiungono le certezze del Re di Giordania Abdullah - il quale ha sostenuto all’Assemblea generale dell’Onu che il proprio Paese «non diventerà mai una sede alternativa per uno Stato palestinese» e che semmai l’idea della Giordania come patria alternativa dei profughi proviene dagli «estremisti che stanno portando la nostra regione sull’orlo di una guerra totale» - si comprende meglio come non vi sia nessun imbarazzo ai vertici delle istituzioni mediorientali sulla guerra in corso, né tantomeno una condanna delle azioni militari di Gerusalemme.

Anzi, qualcuno anche dalle parti di Damasco - uno Stato fallito però ancora oggi sostenuto dalla Russia e sempre più - c’è chi vede la sconfitta definitiva di Hezbollah come un sollievo e una possibilità di creare una nazione finalmente libera dal giogo della religione e dal concetto di jihad (anche se, a dire il vero, sono piuttosto i ribelli di Aleppo a gioire delle azioni di Israele, auspicando che presto cadrà anche il dittatore Bashar al Assad, uscito indenne dalla guerra civile).

Infine, lo stesso Iran – che in queste ore tenta di salvare la faccia, lanciando nuovi missili balistici verso Israele, un attacco che i media americani e fonti d’intelligence avevano però anticipato nelle scorse ore – è diviso tra le fazioni di chi intende vivere ancora nell’oscurantismo religioso che in questa regione ha contraddistinto il secondo Novecento e chi vuole fare tabula rasa del passato, per lasciare che gli Accordi di Abramo sul riconoscimento di Israele – vero e unico movente dell’attacco di Hamas del 7 ottobre – diventino realtà. Forse, maligna qualcuno, sono stati proprio gli iraniani a «vendere» Hassan Nasrallah agli israeliani, per sbarazzarsi di chi si oppone al «progresso» e al secolarismo.

Sia come sia, il Medio Oriente è oggi di fronte al giudizio della Storia, e la prosperità futura dei vari Paesi che lo compongono dipenderà proprio da come ciascuno di essi gestirà la guerra in corso. Soprattutto, però, gli occhi sono puntati sulla Persia: che cosa farà Teheran? Cederà al cupio dissolvi o finalmente si emanciperà dalle guerre per procura, che già troppo gli sono costate, e scenderà a patti con Israele, tornando a fare grandi affari come già accadeva prima della Rivoluzione islamica?

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Luciano Tirinnanzi