Iran: elezioni anticipate e «controllate» dalla Guida Suprema, Khamenei
Si vota per scegliere il successore del presidente Raisi, morto in un incidente aereo il mese scorso. Dalla lista originale di ottanta candidati solo sei sono stati approvati. Tra i favoriti Ghalibaf e Jalili, entrambi fedelissimi del regime ultraconservatore iraniano
Erano 80 i candidati alla presidenza dell’Iran per le elezioni che si svolgeranno questo venerdì 28 giugno, ovvero un anno prima del previsto, a causa della morte del presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi in un incidente aereo lo scorso 19 maggio.
Di questi, almeno 15 meritavano l’attenzione internazionale. Ma, come noto, essendo la Repubblica islamica una teocrazia dove a decidere è (teoricamente) un solo uomo – ovvero la Guida Suprema, ayatollah Ali Khamenei – solamente sei sono stati scelti da lui, secondo quanto gli consente la Costituzione. A decidere i loro nomi e a scartare tutti gli altri, formalmente è stato il Consiglio dei Guardiani, ovvero l’organo costituzionale i cui dodici membri, tutti ultraconservatori, sono chiamati a definire la rosa delle persone «idonee» alla candidatura presidenziale, qualsiasi cosa significhi. Ma di fatto è stata rispettata la volontà diretta della Guida Suprema. Prova ne sia che nessuna donna è stata ammessa, così come non compare alcun indipendente o altra figura che potrebbe creare dei grattacapi al governo centrale.
In questa tornata, complice la scomparsa di Raisi, il Consiglio dei Guardiani ha avuto gioco davvero facile nell’accogliere sei innocui candidati, secondo i desiderata di Khamenei: nel 2021, quando fu eletto il presidente prematuramente scomparso, i candidati giudicati idonei furono appena uno di più, sette, però su cinquecento candidati e non su ottanta.
Tra i possibili idonei fino a qualche settimana fa c’era anche l’ex presidente Mahmud Ahmadinejad, poi scartato per una serie di ragioni, tra le quali il fatto di rappresentare una forza laica troppo compromessa con i Pasdaran, la casta militare che condivide il potere assoluto con gli ayatollah. Tra i candidati non figura neppure l’attuale presidente in pectore, Mohammad Mokhber, che ha opportunamente scelto di adeguarsi alle esigenze del partito dei teologi sciiti, probabilmente per un tornaconto personale: dopo le elezioni, è verosimile che resti a palazzo come vice presidente.
Ecco chi sono gli altri aspiranti presidente: Mohammad Baqer Ghalibaf, portavoce del parlamento e con un curriculum di peso, essendo stato già comandante delle Guardie rivoluzionarie e sindaco della capitale Teheran. Secondo tutte le indicazioni, è lui il favorito.
Seguono altri profili di uomini compiacenti col regime e ben inseriti nella macchina del potere iraniana: Saeed Jalili, direttore dell’ufficio del leader supremo, e soprannominato «martire vivente»; Alireza Zakani, altro ex sindaco di Teheran, conservatore, soprannominato «carro armato rivoluzionario». Poi, una figura incolore come l’ex ministro degli Interni, Mostafa Pourmohammadi; quindi, Amir-Hossein Ghazizadeh Hashemi, già direttore della Fondazione dei martiri e dei veterani (quella che, per dire, sostiene e finanza gli Hezbollah del Libano). Come ben si evince, insomma, sono tutti nomi di conservatori fedelissimi della Guida Suprema.
C’è solo un’unica candidatura all’apparenza indipendente e ascrivibile nella casella «moderato»: è quella di Masoud Pezeshkian, medico e parlamentare considerato un riformista, ma che ha ben presente di avere le mani legate. L’approvazione della sua candidatura, infatti, è considerata poco più che una mossa scaltra da parte del regime, funzionale a evitare il peggiore degli scenari per l’attuale leadership: l’astensione di massa.
Il governo, infatti, più di ogni altra cosa teme che il popolo iraniano traduca il crescente malcontento interno in una nuova protesta, stavolta silenziosa, che consiste nel disertare le urne per poi indire nuove manifestazioni di piazza. Cosa che metterebbe in non poco imbarazzo gli ayatollah, e che verrebbe percepita a livello internazionale come una sonora bocciatura degli ayatollah, configurandosi pertanto come la definitiva delegittimazione della leadership al potere da parte della popolazione. Specie dopo che il tasso di partecipazione alle elezioni legislative che si sono tenute lo scorso marzo è stato del 41%, rispetto al 42,57% del 2020. Si tratta dell’affluenza più bassa mai registrata a partire dalla Rivoluzione islamica del 1979.
Per questo, aver consentito a un candidato riformista come Pezeshkian di candidarsi appare funzionale a rompere il fronte del non voto. Tuttavia, se anche il riformista Pezeshkian fosse eletto, il suo mandato non porterebbe a significativi cambiamenti: basti ricordare come anche il presidente Hassan Rouhani fosse stato presentato come un moderato – al punto tale che persino il presidente Usa Barack Obama riponeva molta fiducia in lui – eppure niente è cambiato da allora, nonostante il patto per il nucleare siglato con il benestare della Casa Bianca (trattato poi cancellato da Trump). Pezeshkian stesso ha già messo le mani avanti, affermando che non si discosterà in ogni caso dalle leggi attuali. Ciò significa che neanche sotto la sua eventuale presidenza sarà possibile restituire agli iraniani maggiori libertà sociali, più diritti individuali e maggiore integrazione delle donne nella società.
In definitiva, stando così le cose gli ayatollah hanno già vinto, perché questa elezione sembra destinata a mantenere lo status quo. «Che è proprio ciò invece che stiamo combattendo da anni», come commentano amaramente le attiviste nel movimento Donna Vita Libertà, in prima linea nel coordinare le proteste civili contro il regime in tutto il Paese.
In ogni caso, secondo gli analisti il prossimo presidente iraniano non sarà comunque un clerico (è già capitato tre volte, con Abolhassan Bani Sadr, Mohammad-Ali Rajai e Mahmoud Ahmadinejad): se così fosse, la candidatura Mostafa Pourmohammadi è da scartare subito, così come vi sono pochissime speranze per il «riformista» Masoud Pezeshkian.
A contendersi davvero la presidenza, sono soltanto in due: Mohammad Bagher Qalibaf, come detto; e Saeed Jalili, un protetto di Mojtaba Khamenei, figlio della guida suprema e l’unico capace di contendere la poltrona di presidente a Qalibaf.
Poiché nel sistema iraniano vince il candidato che prende la maggioranza assoluta, se nessuno la dovesse ottenere al primo turno (come probabile), si andrà al ballottaggio tra i 2 più votati. Che potrebbero essere proprio Qalibaf e Jalili. Ecco allora come quella che va in scena oggi in Iran pare l’ennesima elezione che nulla cambia nello schema di potere: assisteremo con ogni probabilità a una transizione indolore per il regime, che anzi potrebbe persino rafforzare la componente ultra-conservatrice che governa a Teheran.