L'Iran impicca i giovani manifestanti, il mondo sta a guardare
Altro che aperture democratiche. A Teheran ha vinto la linea dura, quella che porta al patibolo a partire da Mohsen Shekari
Come non detto. L’Iran compie una macabra retromarcia sulle pur tiepide aperture nei confronti della moltitudine che protesta da mesi in tutto il Paese contro la dittatura, e manda a morte i primi manifestanti. E lo fa significativamente nella stessa settimana in cui s’intravedeva una possibile riforma sull’obbligo del velo per le donne (pietra dello scandalo e scintilla della rivolta) e sullo scioglimento della cosiddetta «polizia morale».
Come a far capire che la questione della sicurezza nazionale è inderogabile, ma soprattutto che all’interno del governo di Teheran ha vinto la linea dura. Nessun compromesso con il movimento ribelle e dietrofront sulle concessioni paventate dalla magistratura: gli ayatollah si mostrano compatti agli occhi del mondo e tagliano la mano che era stata tesa dalla parte più civile del potere, che teme a ragione una possibile degenerazione delle proteste fino allo spettro di una guerra civile.
Intanto, se n’è andato già Mohsen Shekari, un giovane 23enne che vanta il triste primato di essere il primo condannato a morte dall’inizio della rivolta.
Contro di lui un’accusa che lascia attoniti: è stato riconosciuto colpevole del reato di «guerra contro Dio». In realtà, era contro gli abusi della forza paramilitare dei Basij che Mohsen si era ribellato. Dopo aver alzato una barricata in una strada della capitale, si sarebbe scagliato contro gli uomini della sicurezza «con l’intento di creare terrore e uccidere» e in quel contesto ne avrebbe ferito «intenzionalmente» uno con una lama di coltello. Per la «corte rivoluzionaria» ossia la magistratura iraniana, l’uomo avrebbe confessato e pertanto la Corte Suprema ha lasciato che lo impiccassero.
Altro processo, altri condannati al patibolo. Per la morte di un paramilitare il 12 novembre a Teheran i responsabili individuati dal tribunale sarebbero 3 minorenni, arrestati sbrigativamente lo scorso 14 novembre e accusati addirittura di «corruzione sulla Terra». La loro eventuale impiccagione, oltre che raccapricciante e ignobile, sarebbe qualcosa di illecito anche secondo il diritto internazionale e la Convenzione sui diritti dell’infanzia (che peraltro l’Iran riconosce e ha ratificato). Questo per dire della brutalità con cui il governo agita i sonni delle madri e dei padri iraniani, consapevoli che i loro figli sono in piazza per una causa giusta, ma che per questo rischiano la vita. Ed è esattamente il meccanismo con cui il governo spera di sedare l’insurrezione.
L’esecuzione di Mohsen Shekari ha l’intenzione esplicita di dissuadere altri dallo scendere in piazza. Ma, come ha sostenuto Parham Ghobadi della BBC Persia, «potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio per il regime iraniano, che cercando di instillare paura provoca rabbia. I manifestanti hanno dimostrato più volte di non avere più paura. Il funerale di ogni persona uccisa dalle forze di sicurezza si è trasformato in una manifestazione antigovernativa. L’impiccagione è quindi un’altra grande scommessa per il regime, che potrebbe dare nuovo impulso alle proteste di piazza».
Nulla si sa, invece, degli altri 7 condannati. La magistratura iraniana terrebbe volutamente riservata l’identità per evitare che intorno a loro si saldi una solida difesa (magari coadiuvata a livello internazionale) e che queste persone si trasformino nei nuovi martiri dell’Iran dopo Masha Amini, la giovane ventiduenne morta per le percosse della polizia morale iraniana, dopo essere stata arrestata il 16 settembre scorso perché una ciocca di capelli le sporgeva dal velo. Si sa soltanto che nelle carceri iraniane si trova anche Fahimeh Karimi, madre di tre bambini e condannata a morte dal regime per aver dato un calcio a un paramilitare Basiji.
Vale la pena ricordare come l’Iran sia secondo soltanto alla Cina nel mondo quanto a numero di esecuzioni capitali: anche prima degli attuali disordini, negli ultimi tempi si è registrato un allarmante aumento delle esecuzioni nel Paese, con un numero che avrebbe superato le 400 impiccagioni pareggiando per la prima volta il record negativo del 2017.
Anche se è impossibile per chiunque al di fuori del governo iraniano confermare cifre precise, si stima che sinora i morti dall’inizio degli scontri siano non meno di 475, e oltre 18 mila gli arrestati; mentre altre 21 persone sarebbero in attesa della conferma della condanna a morte. Per questo molte figure di spicco della politica e del clero iraniano hanno fatto appello alla calma e alla distensione: l’ex presidente iraniano Mohammad Khatami, ad esempio, ha esortato martedì l’attuale governo a «essere più clemente con i manifestanti». E così anche il chierico sunnita Molavi Abdolhamid Ismaeelzahi, che ha invitato la magistratura a «indagare e perseguire le persone che abusano delle donne nelle carceri».
Ma per quanto questa protesta abbia raggiunto un livello allarmante e tocchi più di un nervo scoperto per la Repubblica islamica, la Guida Suprema iraniana Ali Khamenei continua a elogiare la Guardia Rivoluzionaria per il suo ruolo nella repressione, declassando il movimento di protesta a «branchi di rivoltosi e teppisti sostenuti da potenze straniere» e opponendo ottusamente la ragion di Stato al comportamento brutale delle forze di sicurezza schierate a difesa delle istituzioni.