Le terribili violenze in Iran non fanno notizia
Al G20 dei grandi della Terra nemmeno una parola sulle proteste e soprattutto sui massacri di giovani da parte della Polizia di Teheran. Fino a che punto durerà questo macabro silenzio?
Iran, questo sconosciuto. I media occidentali sono così concentrati in queste settimane nel coprire crisi internazionali come la guerra russo-ucraina e nel criticare eventi come i mondiali in Qatar, che quasi non si accorgono – o ignorano del tutto – le conseguenze incendiarie della «rivolta continua» che divampa nella Repubblica islamica. Eppure, l’Iran la crisi è ormai giunta al suo terzo mese e, anziché placarsi, cresce d’intensità giorno dopo giorno.
Troppo facile snocciolare i numeri degli scontri: 324 vittime tra i manifestanti, 14 mila arresti, 62 giornalisti detenuti e 40 forze di sicurezza decedute. Sono cifre preoccupanti, ma probabilmente assai sottostimate. E non aiutano a comprenderne la reale dimensione. Perché se è vero che le proteste sono state molto accese soprattutto nel Kurdistan iraniano, la regione nel nord-ovest da cui proveniva Mahsa Amini (l’involontaria scintilla delle proteste e prima vittima accertata del regime iraniano), è anche vero che la rivolta ha ormai contagiato l’intero Paese, dilagando pressoché ovunque e trovando proprio nella capitale Teheran il centro propulsore delle rivendicazioni dei manifestanti.
Dove, infatti, adesso arrivano anche le serrate dei negozi e gli scioperi generali delle classi lavoratrici che oggi si sono unite alle proteste delle donne, vero e proprio motore di questa pagina di storia della Repubblica islamica. Da martedì, i manifestanti hanno indetto tre giorni di cortei e raduni su larga scala per commemorare il cosiddetto «novembre di sangue»: si tratta della repressione seguita alle proteste antigovernative del 2019, quando cioè il governo degli ayatollah ordinò di soffocare ogni manifestazione di dissenso, lasciando senza vita per le strade circa 1.500 persone. Anche in questo caso, nessuno lo ricorda mai. Ma i giovani iraniani non possono dimenticare.
Così come, al contrario di noialtri, non sottostimano il valore intrinseco dei simboli. Non c’è soltanto il togliersi il velo per le donne, o i baci scambiati in pubblico tra coppie nonostante siano proibiti dalla polizia morale (esti liberatori che hanno un valore immenso per una società dove la polizia morale spia e terrorizza il popolo, ed è autorizzata a calpestare ogni diritto civile). C’è molto di più.
Mentre scriviamo, ad esempio, giunge la notizia che numerosi dimostranti anti-regime hanno preso d’assalto e incendiato persino la casa dove è nato l’ayatollah Khomeini, il padre spirituale della Rivoluzione islamica e il fondatore del regime. Dare alle fiamme la casa-museo della Guida Suprema non è un fatto da poco: questo fatto non solo costituisce un attacco diretto all’ordine costituito, ma segnala anche che le nuove generazioni si sono ormai convinte che la parabola della teocrazia iraniana sia giunta al suo termine naturale.
Questo, signori, ha un nome preciso: si chiama rivoluzione. E vedremo cos’avranno da dire la casta religiosa e i Pasdaran che governano l’Iran con pugno di ferro, quando (e se) i giocatori della nazionale di calcio in Qatar rifiuteranno di cantare l’inno nazionale in mondovisione.
Non si tratta di elementi da sottostimare, perché questa rivolta è trasversale e intercetta l’intera società iraniana: giovani e donne, operai e imprenditori, laici e religiosi, conservatori e progressisti. Solo gli ayatollah sembrano non aver ancora ben compreso la reale portata delle proteste. E difatti sinora hanno saputo soltanto comminare condanne a morte per chiunque compia «crimini contro lo Stato».
Atti tanto arbitrari quanto controproducenti, che non fanno altro che aumentare il numero di martiri della nuova rivoluzione, allargando le rivolte nelle province più lontane della Persia, dove si moltiplicano gli assalti ai municipi locali, gli incendi nelle carceri, mentre nella capitale vengono erette barricate in piazza.
Se è vero che il governo di Teheran non ha ancora voluto soffocare nel sangue ordinando all’esercito schierato per le strade di procedere come nel 2019, poco ci manca prima che la situazione sfugga completamente fuori dal suo controllo. E certo non aiuta il fatto che gli stessi Guardiani della Rivoluzione che dovrebbero difendere le istituzioni iraniane, siano tuttora concentrati più sul fornire armi ai russi e raggiungere la piena capacità nucleare, che non a dirimere la gravissima crisi sociale che sferza l’Iran e fomenta la rabbia del popolo.
Solo i francesi sembrano essersi accorti del peso specifico delle proteste. E lo cavalcano: «Qualcosa è cambiato in Iran» ha detto da Bali il presidente francese Emmanuel Macron, dopo che nelle ultime settimane aveva incontrato alcuni esponenti della dissidenza iraniana. «Questa è una rivoluzione delle donne, dei giovani iraniani, che difendono valori universali come l'uguaglianza di genere. È importante elogiare il coraggio e la legittimità di questa lotta» ha aggiunto, sollevando le critiche di Teheran che ha accusato Parigi di «tramare per la destabilizzazione del paese».
Mentre Parigi si appresta a votare per censurare l’Iran e suo programma nucleare alla prossima riunione del consiglio dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), anche negli Stati Uniti, in Turchia e nello Stato di Israele s’inizia a considerare la caduta del regime – o quantomeno una sua radicale sterzata – come uno scenario improvvisamente possibile e attuabile.
Insomma, a ben vedere nel 2022 regimi autoritari come appunto la teocrazia iraniana (non meno che la democratura russa), sembrano scricchiolare pesantemente sotto i colpi di masse critiche delle società contemporanee che – troppo vessate dall’intrusione dello Stato negli affari privati e ripetutamente colpite da crisi economiche – non intendono più accettare i metodi rozzi e brutali che hanno contraddistinto le amministrazioni al potere sin dal secolo scorso. Quel patto sociale che durava da decenni si è infine rotto, almeno in Iran, e con l’avanzare del nuovo millennio sembra affacciarsi una rivoluzione laica di cui abbiamo finto troppo a lungo che non vi fosse alcuna traccia.