"Entrare a Rafah è inevitabile, ma il vero nemico di Israele non è Hamas"
Un alto ufficiale israeliano spiega, coperto da anonimato, perché Gerusalemme non ha scelta per cercare di chiudere il conflitto. E perché la pace dovrà reggersi su un largo accordo internazionale
«Non esiste il dubbio o l’incertezza se le nostre truppe debbano entrare o meno a Rafah. In cosa differisce Rafah da Gaza? In niente. Di per sé non rappresenta qualcosa di speciale. La realtà è che Hamas prima della guerra disponeva di 6 brigate, e di queste ne abbiamo già distrutte 4. Le ultime 2 si sono riorganizzate dentro Rafah, e quindi è lì che dobbiamo andare per concludere l’operazione di terra. Non sono certo io a decidere, ma dal punto di vista militare è un obiettivo inevitabile. Anche perché non è vero che i rifugiati di Gaza siano ammassati tutti a Rafah. Parte della popolazione di Gaza city è rimasta in città; semmai dobbiamo coordinarci bene con l’Egitto come condizione essenziale per garantire più sicurezza ai cittadini palestinesi e, parimenti, per far cessare il traffico di armi che negli ultimi anni ha permesso ai terroristi palestinesi di accaparrarsi armi di cui altrimenti non avrebbero potuto disporre».
Queste non sono le parole dell’ennesimo opinionista televisivo che commenta il dramma israelo-palestinese, ma il ragionamento di un alto ufficiale israeliano in prima linea nell’avanzata che dovrebbe portare alla conclusione della prima fase della guerra in corso. «Inutile dire che la guerra sarebbe potuta finire in una settimana, se gli uomini di Hamas avessero smilitarizzato la Striscia e avessero consegnato le armi, arrendendosi. Non è accaduto, perché qualcuno voleva che il conflitto proseguisse, allargandosi a macchia d’olio».
Parlando in via confidenziale e garantito dal riserbo dell’anonimato, il graduato chiarisce alcuni aspetti fondamentali per comprendere il punto di vista di Gerusalemme. O meglio, delle sue forze armate. «L’obiettivo oggi è smantellare l’organizzazione terroristica che mette a rischio la nostra stessa esistenza, e riportare a casa gli ostaggi». E poi cosa? «Serve una forza di interposizione internazionale». Il modello citato dall’ufficiale è preciso: «l’occupazione del Giappone da parte delle forze alleate a guida statunitense», una realtà che durò dal 1946 al 1952. Formalmente, era una forza di occupazione del Commonwealth britannico, di fatto un governatorato americano che assunse il controllo del Paese per ottanta mesi dopo la resa dell’impero nel 1945.
«Ma questo è solo il primo passo, perché le minacce nei confronti di Israele non si concludono certo con la sconfitta militare di Hamas. Un aspetto che si sottovaluta spesso nell’analizzare quanto sta avvenendo oggi in Medio Oriente, è che non esiste condizione per cui la strategia di Hamas può dirsi slegata dalla volontà di Teheran. Quello che state osservando è semmai il risultato della cosiddetta “dottrina Suleimani”».
Il riferimento è alla teoria militare sciorinata dal comandante delle brigate al Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, Qassem Suleimani, responsabile delle operazioni all’estero della Repubblica Islamica iraniana. Fino alla sua morte, avvenuta per mano americana nel gennaio del 2020, ha guidato per conto di Teheran la lotta allo Stato Islamico in Siria e Iraq, fino all’assedio di Aleppo e al puntellamento del potere di Bashar al-Assad a Damasco. Dal momento della sua uccisione a Baghdad per mezzo di un drone made in USA, Suleimani è diventato la figura attorno alla quale Teheran ha ricompattato (sia pur temporaneamente) un Paese estremamente frammentato al proprio interno.
La “dottrina Suleimani” punta a rendere l’Iran il dominus di un’area vasta che dall’Asia centrale si spinge fino al Mediterraneo, lungo quel cosiddetto “corridoio sciita” che dall’Iran, passando per Iraq e Siria, finisce in Libano. La qual cosa darebbe a Teheran il controllo di tre mari, con uno sbocco geopolitico anche verso Occidente, dopo Mar rosso e Mar Caspio, dove già Teheran si avvantaggia di alleati quali gli Houthi dello Yemen e altre milizie filo-iraniane che contendono all’Azerbaijan il primato sul Caspio.
Ovviamente, lo schema ideato dal generale Suleimani non prescindeva dall’uso della forza e contemplava l’uso (e abuso) di «proxy». Questa teoria militare non è nuova, e si basa sull’idea che attori statali egemoni possano perseguire i propri obiettivi non impegnando direttamente le proprie truppe in un determinato teatro di guerra, ma procedendo per procura attraverso «agenti» che combattono per loro conto. Il che, agli occhi di un tribunale internazionale, solleva teoricamente il mandante dalle responsabilità di quel che accade sul campo di battaglia.
«Suleimani ha fatto di Hamas in Palestina, di Hezbollah in Libano, degli Houthi in Yemen e di altre formazioni in Sudan e finanche in Algeria e Marocco, vere e proprie armate sotto il suo comando. Perciò è sbagliato definire gruppi in armi come Hamas semplicemente “milizie terroristiche”, come si vogliono far passare. In questo modo, si sminuisce il loro ruolo nella guerra e la minaccia che esse costituiscono per il mondo intero. Sono formazioni di militari professionisti, addestrati, equipaggiati ed eterodiretti da Teheran. Non immaginatevi i jihadisti in tuta con le sneakers e gli Ak-47, com’erano i miliziani del Califfato. Queste sono forze militari speciali, altamente addestrate, e capaci di gestire missili balistici e altre tecnologie belliche di ultima generazione».
Come a dire che il nemico di Israele non coincide con il gruppo che ha preso il potere a Gaza sin dal 2007, né con l’Olp di Ramallah e della Cisgiordania. Il vero avversario di Gerusalemme, che ha pianificato e dato vita al massacro del 7 ottobre, secondo la nostra fonte israeliana, semmai «si trova nei palazzi governativi di Teheran».
Il che, inevitabilmente, allarga la portata geografica e temporale del conflitto in corso. E, osservando gli ultimi scambi di artiglieria con la Siria e il raid israeliano sull’aeroporto di Damasco di questa settimana, sembra di scorgere una certa coerenza con i piani enucleati dal militare. Vale ad esempio per il confine nord con il Libano, dove peraltro è appena stata la premier italiana Giorgia Meloni, in visita alle truppe italiane che guidano il contingente dei caschi blu dell’Onu.
«La pace non si costruisce con i sentimenti e le buone parole» ha dichiarato in proposito Meloni dalla base Millevoi di Shama, dove sono di stanza contingenti italiani dispiegati in Libano. «La pace è soprattutto deterrenza e impegno, sacrificio». Un esempio di questa stessa deterrenza è quella che i soldati israeliani applicano costantemente al confine nord, un’area che chiamano senza tanti giri di parole «il secondo fronte».
Sostiene l’ufficiale israeliano: «Nessuna intenzione di sconfinare in Libano, ma non abbiamo altra scelta che rispondere al fuoco per contenere la minaccia, mettendo tra noi e i soldati di Hezbollah una distanza per poi creare una zona cuscinetto». E poi? I prossimi passi sono una «Air blockade» ovvero un blocco totale dello spazio aereo. «Dobbiamo anche dialogare di più con i partner idonei, come la Giordania e l’Egitto. Anche al Cairo i terroristi cercano un regime change per riportare al potere un governo islamista. Dobbiamo impedirlo a ogni costo». Anche perché la conseguenza sarebbe, come già per la Libia, «l’uso strumentale dell’immigrazione per colpire l’Europa e creare una crisi senza precedenti. Lo abbiamo già visto accadere».
Un altro nodo cruciale da sciogliere per Gerusalemme è quello politico, sia per quanto concerne il fronte interno – le contestazioni nei confronti del premier Bibi Netanyahu, metaforicamente cinto d’assedio – sia per quello internazionale – le profonde divergenze con Washington, che chiede a Israele di non aggravare una situazione già esplosiva.
«I soldati non commentano le questioni politiche» taglia corto l’ufficiale. «Abbiamo mandato di estirpare questo cancro silenzioso che si è insediato nel tessuto della società israeliana e palestinese e che, se non sarà eradicato, porterà piano piano al collasso dell’intero Medio Oriente. Non lo permetteremo».