Kamala Harris
(Ansa)
Dal Mondo

L'eclissi di Kamala Harris

La vicepresidente degli Stati Uniti che doveva essere la nuova stella della politica Usa è sempre più in difficoltà. Una situazione, al netto della propaganda, ampiamente prevedibile

Non è un bel periodo, questo, per Kamala Harris. La vicepresidente degli Stati Uniti si sta infatti ritrovando impelagata in una serie di crescenti difficoltà politiche. Un recente sondaggio Usa Today/Suffolk ha messo in luce che soltanto il 28% degli elettori americani si dica oggi soddisfatto dell'operato della numero due della Casa Bianca: un risultato disastroso, peggiore di quello registrato ai suoi tempi da Dick Cheney (che –ricordiamolo– è stato tra i vicepresidenti più impopolari della storia statunitense). Inoltre, come se non bastasse, un articolo pubblicato lo scorso 15 novembre dal sito della Cnn ha rivelato rilevanti problemi nell'attività della vicepresidente: confusione organizzativa nel suo staff, tensioni con alcuni settori dell'amministrazione e addirittura problematiche interferenze da parte della sorella Maya e del cognato Tony West. Insomma, il caos è significativo. E mette chiaramente in luce le turbolenze della carriera politica di Kamala Harris. Una situazione che a qualcuno potrebbe apparire inattesa. Basta del resto pensare agli articoli di elogio acritico che vennero pubblicati l'anno scorso in suo onore: un'enfasi mediatica che aveva prodotto delle aspettative enormi. In realtà, l'eclissi della Harris è un fenomeno che affonda le sue radici in nodi di carattere strutturale: alcuni dei quali erano già chiaramente ravvisabili quando fu scelta da Joe Biden come candidata alla vicepresidenza.

Cominciamo innanzitutto col ricordare il clamoroso fallimento della sua corsa alle ultime primarie democratiche. Quando scese in campo, la Harris –allora senatrice della California– era considerata tra i contendenti più promettenti. Addirittura, nel luglio del 2019, schizzò in cima ai sondaggi, portando molti a ritenere che sarebbe riuscita a vincere la nomination. Un successo che si sarebbe poi tuttavia rivelato un fuoco di paglia: il consenso cominciò infatti rapidamente a crollare, fin quando –a fronte di un umiliante 4% di gradimento a livello nazionale– la Harris non decise di ritirarsi a dicembre 2019: prima, cioè, dell'inizio delle primarie vere e proprie. Un fallimento che aveva varie ragioni alla sua base, prima tra tutte l'incapacità dell'allora senatrice di ritagliarsi un messaggio elettorale chiaro e convincente. All'interno di un partito dilaniato come l'Asinello, la Harris aveva infatti cercato di confezionare una linea di mediazione tra il centro e la sinistra, finendo così tuttavia con lo scontentare tutti. Inoltre, non va trascurato che l'allora senatrice non riscuotesse troppa simpatia da parte dei settori elettorali più vicini a Bernie Sanders: settori che la accusavano di opportunismo (vista la sua pregressa carriera da procuratrice law and order) e di scarsa vicinanza alle esigenze della middle class. Già questi fattori avrebbero dovuto fungere da serio campanello d'allarme per il suo futuro politico.

La domanda da porsi allora è per quale ragione, pur a fronte di tali debolezze strutturali, la Harris sia alla fine stata scelta. Le motivazioni sono molteplici. Innanzitutto, come sottolineato da Politico nell'agosto del 2019, la Harris ha sempre potuto contare sui potenti (e talvolta ideologicamente trasversali) network politici californiani. In secondo luogo, il fatto di essere un'esponente delle minoranze etniche può aver giocato un ruolo rilevante, nell'ambito di un Partito democratico sempre più prono ai dettami della identity politics. Ma c'è probabilmente anche dell'altro. Ricordiamo che, a inizio agosto 2020, erano principalmente due le donne arrivate nella shortlist di Biden per la nomina a candidato vicepresidente: la stessa Harris e la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren. Un profilo, quest'ultimo, che era senza dubbio più tecnicamente preparato di quello della sua collega californiana (la quale –ricordiamolo– durante le primarie aveva mostrato di essere scarsamente competente su vari dossier: dal commercio internazionale alla politica estera). Eppure la scelta di Biden ricadde alla fine proprio su di lei. Perché? Una delle ragioni plausibili è da ricercarsi nei suoi stretti legami con la Silicon Valley, a partire dalla direttrice operativa di Facebook Sheryl Sandberg, che, non a caso, diede il suo endorsement alla Harris appena ne fu ufficializzata la candidatura alla vicepresidenza. La Warren, al contrario, era nota per aver proposto una linea particolarmente severa nei confronti dei giganti del web sul fronte dell'antitrust. Ecco che dunque la scelta della Harris da parte di Biden fu probabilmente fatta (anche) in un'ottica di "amicizia" nei confronti della Silicon Valley: quella stessa Silicon Valley che, sarà stato un caso, avrebbe poi svolto un ruolo di primo piano nella campagna elettorale per le presidenziali del novembre 2020 a favore dell'Asinello (sia in termini di finanziamenti che di influenza politica).

Tutti questi nodi sono venuti al pettine poco dopo l'insediamento presidenziale dello scorso 20 gennaio. Nonostante l'enfasi mediatica con cui venne quel giorno celebrata, la Harris si è infatti eclissata fin da subito. Una linea dettata non solo dalle tensioni interne alla stessa Casa Bianca, ma anche dal fatto che probabilmente l'attuale vicepresidente volesse evitare di maneggiare dossier troppo spinosi, per non compromettere la sua carriera futura (non è del resto un mistero che, nel 2024, la Harris punti a essere la candidata presidenziale del Partito democratico). E' quindi in tal senso che, a maggio, in piena crisi di Gaza, evitò di esporsi nella disfida interna all'Asinello tra sostenitori di Israele e di Hamas. Un copione ripetutosi ad agosto, durante la disastrosa evacuazione dall'Afghanistan, che la diretta interessata si è limitata ad appoggiare con un paio di laconici tweet: proprio lei che, da candidata alla nomination nel 2019, aveva invece detto che, se eletta presidente, si sarebbe attivata per tutelare i diritti acquisiti dalle donne afghane. Critiche le sono inoltre arrivate per il suo recente viaggio ufficiale in Francia, in cui non sembra aver lasciato un particolare segno. Va da sé che questo atteggiamento –dettato in parte da una strategia politica e in parte dalla scarsa conoscenza dei dossier– le abbia alienato le simpatie di larghe fette dell'elettorato.

Del resto, non le è andata meglio nelle attività che ha finora svolto per conto dell'amministrazione. A marzo, Biden le aveva infatti affidato l'incarico di gestire la crisi migratoria dal punto di vista politico-diplomatico con il Centro America: un ruolo che la Harris ha accettato con ben poco entusiasmo e in cui finora non è riuscita a produrre risultati concreti, se non quello di irritare contemporaneamente i repubblicani e l'ala sinistra dello stesso Partito democratico. Se i primi la accusano infatti di sostanziale incapacità, la seconda non le ha perdonato di aver esortato a giugno i migranti a non venire negli Stati Uniti. Tra l'altro, l'immigrazione è un tema delicato che avrà prevedibilmente un notevole impatto sulle elezioni di metà mandato del prossimo anno. Un grosso rischio per la Harris, che vedrà probabilmente crescere il fronte dei propri avversari in seno alla stessa amministrazione.

Certo: la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ha cercato di correre ai ripari nelle scorse ore, dichiarando che la Harris risulterebbe una "leader audace". C'è tuttavia da dubitare che questo basti a rivitalizzare una carriera politica, lanciata tra gli encomi mediatici ma collassata sotto il peso di strategie machiavelliche sbagliate e di una scarsa capacità politica. Una parabola, quella di Kamala Harris, che dovrebbe fungere da monito. Perché la realtà alla fine è più forte del politicamente corretto. Perché l'apparenza deve alla fine fare i conti con la sostanza. Perché è sempre bene diffidare degli elogi acritici dei media: soprattutto quando sono rivolti a figure che ancora devono dimostrare sul campo il proprio valore. Perché la leadership americana oggi meriterebbe forse qualcosa di meglio di Joe Biden e Kamala Harris.

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Stefano Graziosi