Kamala harris vittoria
(Ansa)
Dal Mondo

No: Kamala Harris non ha la vittoria in tasca

La partita elettorale in vista di novembre è aperta, ma l'ottimismo che al momento circonda la candidatura della vicepresidente è in gran parte panna montata

La vulgata a reti unificate è ormai chiara: non fanno che ripetervi che Kamala Harris avrebbe già la vittoria in tasca e che ormai per Donald Trump sarebbe finita. I commenti positivi sono tutti per la vicepresidente, che viene puntualmente presentata come una candidata abile, brillante e astuta, capace – nel giro di appena tre settimane – di rimontare sul candidato repubblicano. D’altronde, questa vulgata pretende di basarsi sui dati di fatto: è vero che vari sondaggi danno la Harris avanti a Trump, come è altrettanto vero che, nell'arco di pochi giorni, la diretta interessata è riuscita a rastrellare oltre 300 milioni di dollari in fondi elettorali. Eppure questi indubbi dati di fatto dovrebbero essere innanzitutto contestualizzati e, in secondo luogo, considerati nel medio termine: fotografare un’istantanea infatti serve a poco. Eh sì, perché, se la corsa per la Casa Bianca resta sicuramente aperta, forse pecca di ottimismo esagerato chi considera la Harris già vincente.

Cominciamo col ricordare che la raccolta fondi non è un indice in sé stesso affidabile per prevedere la vittoria di un candidato presidenziale. Nel 2016, Trump si aggiudicò le elezioni raccogliendo 600 milioni di dollari: esattamente la metà degli 1,2 miliardi rastrellati da Hillary Clinton. In secondo luogo, i sondaggi – in questa fase – vanno presi con le pinze. Primo: la campagna della Harris è partita da neanche un mese. Ci troviamo quindi in un momento di volatilità per quanto riguarda il consenso elettorale dall’una e dall’altra parte. Bisognerebbe attendere che “la polvere si posi”: in tal senso, per fare un ragionamento maggiormente a bocce ferme, sarebbe forse il caso di aspettare (almeno) la metà di settembre. Un altro aspetto da considerare è che la cosiddetta “luna di miele” di cui la Harris sta godendo è (anche) favorita da un atteggiamento benevolo della grande stampa americana: quella stessa grande stampa che, almeno per ora, non le sta chiedendo conto né dei suoi voltafaccia politici (come quello sul fracking) né del fatto che continui a sottrarsi ai giornalisti (durante i primi 18 giorni di campagna non ha rilasciato interviste o tenuto conferenze stampa).

Un ulteriore elemento da sottolineare è che la candidata dem è vicepresidente in carica di un inquilino della Casa Bianca particolarmente impopolare. Secondo il sito FiveThirtyEight, il grado di disapprovazione che caratterizza attualmente Joe Biden sfiora il 56%. La stessa fonte ha inoltre rilevato che la Harris ha un grado di disapprovazione, come vicepresidente, del 49% a fronte di un'approvazione del 41,5%. Tutto questo per dire che, quando la campagna elettorale tornerà a concentrarsi sui temi politici concreti (a partire dall'inflazione), è tutto da dimostrare che la Harris si troverà con la strada in discesa. Giorni fa, Politico riportava che il recente crollo azionario innescato dai deludenti risultati del mercato del lavoro americano potrebbe avere impatti negativi sulla campagna della candidata dem, in quanto è probabile che, nelle prossime settimane, la Bidenomics possa sempre più finire sotto accusa. Riemergerebbe, in caso, lo spettro di Hubert Humphrey: costui, nel 1968, era vicepresidente in carica e ottenne la nomination dem di fatto in sostituzione di Lyndon Johnson, ritiratosi dalla campagna a causa dell’impopolarità che lo perseguitava per come aveva gestito la guerra in Vietnam. Alla fine, quell’anno Humphrey perse contro il repubblicano, Richard Nixon, anche perché non fu capace di scrollarsi di dosso le polemiche che investivano il suo principale.

Ma c’è dell’altro. L'attuale campagna elettorale statunitense risulta, per così dire, “drogata” dalla fine di giugno. Secondo la media sondaggistica di Real Clear Politics, da fine aprile Trump era stabilmente in vantaggio su Biden a livello nazionale in media di un punto percentuale. Poi, il 27 giugno, c’è stato il dibattito televisivo tra i due, che ha finalmente portato alla luce le pressioni che, da circa un anno, l’establishment dem esercitava sul presidente per spingerlo a un passo indietro. Sono quindi seguite settimane, in cui sia i big dell’Asinello sia la grande stampa liberal hanno letteralmente bombardato Biden per convincerlo a ritirarsi dalla competizione elettorale. È in quel periodo che il vantaggio nazionale di Trump è aumentato, salendo a circa tre punti. Poi, è arrivato il 21 luglio: l’inquilino della Casa Bianca ha annunciato l’addio alla corsa e, poco dopo, la Harris è scesa in campo, beneficiando sia della stampa amica sia dei grossi finanziatori che, fino a poco prima, avevano chiuso (o minacciato di chiudere) i rubinetti a favore dei dem, se Biden non si fosse ritirato. È quindi chiaro che ci troviamo in una fase di assestamento ancora in corso per entrambe le campagne. Quella di Trump si sta ricalibrando, visto che è cambiato l’avversario; quella della Harris deve capire come continuare a sfruttare il più possibile una luna di miele che non sarà eterna (come ha già fatto capire, alcuni giorni fa, lo stratega dem, James Carville). E comunque attenzione: i sondaggi negli Stati in bilico hanno storicamente sottovalutato Trump. Prendiamo il Wisconsin. Nel 2016, in questo Stato veniva attribuito alla Clinton un vantaggio del 6,5%: eppure Trump lo conquistò con uno scarto dello 0,7%. Nel 2020, i sondaggi dicevano che Biden lo avrebbe invece espugnato col 6,7% di vantaggio: alla fine lo vinse, sì, ma sopravanzando Trump di appena lo 0,7%. Tutto questo per dire che bisogna essere cauti, prima di prendere come oro colato i numeri che circolano in questi giorni.

Del resto, chi dà al momento la Harris vincitrice certa (o quasi certa) omette di considerare il rovescio della medaglia che caratterizza la sua situazione. Eh sì, perché la vicepresidente deve gestire dei nodi strutturali non di poco conto, a partire dalle spaccature che storicamente attraversano l’Asinello. La candidata dem ha scelto come vice Tim Walz per non irritare l’ala sinistra del suo partito: un’ala che, ferreamente filopalestinese, non ne voleva sapere di un running mate pro Israele come il governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro. Eppure, la mossa della Harris ha finito con l’aggravare il quadro complessivo. Ha scontentato innanzitutto i parlamentari dem centristi che sostenevano lo stesso Shapiro. In secondo luogo, non è riuscita a calmare la sinistra radicale. Negli ultimi giorni, la Harris si è infatti ritrovata platealmente contestata dai manifestanti filopalestinesi in due comizi, che ha tenuto in Michigan e in Arizona. Ricordiamo che, soprattutto in Michigan, la sinistra pro Palestina detiene un peso elettorale notevole nel mondo dem e che, durante le ultime primarie, aveva avviato una campagna di boicottaggio ai danni della rielezione di Biden, tacciato di essere troppo favorevole a Israele. Adesso, la Harris rischia una sorte simile. Non esattamente una buona notizia per lei, visto che il Michigan è uno degli Stati che deciderà assai probabilmente le prossime elezioni.

Tra l’altro, in Michigan la vicepresidente rischia anche su un altro fronte. Nonostante abbia ottenuto l'endorsement del loro sindacato, non è detto che la Harris riuscirà facilmente ad accattivarsi le simpatie dei metalmeccanici locali. Molti di loro sono infatti storicamente preoccupati per gli impatti socioeconomici dell’auto elettrica: quella stessa auto elettrica di cui, invece, Walz, da governatore del Minnesota, è stato un deciso fautore. Certo, c’è chi dice che Walz risulterebbe il profilo ideale per attrarre il voto degli operai della Rust Belt: tuttavia il profilo realmente ideale sarebbe stato Shapiro. Come infatti recentemente notato da Steve Kornacki di Nbc News, Walz, quando fu rieletto governatore nel 2022, non ottenne una particolare spinta da parte dei colletti blu. Una quota elettorale, quest’ultima, rispetto a cui la Harris è storicamente in difficoltà, essendo lei esponente di una sinistra liberal che trova la propria principale base di consenso tra i ceti urbani altolocati di California, New York e New England. Infine un’ultima considerazione. Optando per Walz, la Harris ha deciso di far virare il ticket dem decisamente a sinistra, laddove – se avesse scelto Shapiro – lo avrebbe reso più appetibile per operai ed elettori indipendenti, riuscendo magari anche a disinnescare le accuse di estremismo mosse dai repubblicani. Non solo. Un ticket così a sinistra avrà maggiori difficoltà ad attrarre il voto dei cattolici: quegli stessi cattolici il cui sostegno, assai spesso, consente di conquistare la Casa Bianca.

Sia chiaro: qui nessuno dice che la Harris sia elettoralmente spacciata né che Trump vincerà certamente. Al momento, lo abbiamo visto, si registra troppa volatilità per formulare delle previsioni minimamente attendibili. Il punto è un altro. Chi oggi continua a ripetere che la campagna della vicepresidente sta andando a gonfie vele, tralascia “dettagli” importanti. Esattamente come Trump, anche la Harris ha i suoi problemi: e non sono affatto pochi. Limitarsi a guardare soltanto un lato della questione (quello che fa più comodo), ignorando il resto, è ingenuo e poco professionale. Magari alla fine conquisterà la Casa Bianca, chi può dirlo al momento? Ma per ora no: KamalaHarris non ha affatto la vittoria in tasca.

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Stefano Graziosi