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Padre Sava Janijc, abate del monastero di Decani, in Kosovo.
Dal Mondo

Kosovo: monastero serbo-ortodosso cancellato da Google maps

In occasione della celebrazione dell'indipendenza, la chiesa medioevale più grande e meglio preservata di tutti i Balcani è scomparsa dalle mappe. L'abate Sava Janijc spiega le ragioni dell'ennesima intimidazione contro la comunità religiosa di Decani.

  • Il monastero serbo-ortodosso di Decani cancellato da Google maps
  • Kosovo: la vendetta contro i serbi (Le serie storiche di Panorama)
  • Ma è vero che gli italiani appoggiano l'Uck? (Le serie storiche di Panorama)


«Mentre il 17 febbraio il Kosovo celebrava il quattordicesimo anniversario della sua indipendenza, il monastero di Decani è stato rimosso da Google maps». L'abate Sava Janijc è sconsolato: per parecchi giorni il suo monastero, un capolavoro del quattordicesimo secolo tutelato dall'Unesco, è scomparso dalle mappe.

Proprio così: la chiesa medioevale più grande e meglio preservata di tutti i Balcani non compariva più su Google maps. Cercando il monastero della Chiesa serbo ortodossa, questo risultava localizzato in pieno centro città, all'interno di una rotonda, dove compariva un punto interrogativo. E un punto interrogativo compariva anche nel luogo in cui effettivamente si trova: un complesso circolare vicino al fiume Lumbardhi i Deqanit, al cui centro sorge una costruzione bianca. Per il motore di ricerca, il monastero non esisteva più. Cancellato, come tanti kosovari di etnia albanese vorrebbero cancellare la presenza serba dal Kosovo.

Solo nel primo pomeriggio del 21 febbraio, quando Panorama aveva già fatto l'intervista con l'abate (e aveva riprodotto l'immagine della mappa con il monastero privo di nome, che si trova nella galleria fotografica qui sotto) il monumento è miracolosamente ricomparso sui computer, ma non sui cellulari. La situazione si è normalizzata solo verso le 18, quando su Google maps è riapparsa la scritta in lingua albanese «Monastiri i Decanit», accompagnata dalla traduzione nei caratteri cirillici serbi.

Costruito fra il 1327 e il 1335 dal re serbo Uros III, il monastero è considerato dall'organizzazione Europa nostra uno dei sette monumenti più a rischio di tutta Europa. «Un tesoro insostituibile» lo definisce lo Smithsonian magazine, «dove le tradizioni dell'architettura romanica incontrano i modelli artistici del mondo bizantino».

Per capire che cosa sta succedendo a Decani, e di conseguenza ai 100.000 serbi rimasti in Kosovo dopo la contropulizia etnica a opera degli albanesi al termine della guerra del 1999, Panorama dà di nuovo voce all'abate Sava Janijc, un monaco serbo-ortodosso cresciuto in una famiglia mista: padre serbo e madre mezza croata e mezza tedesco-ungherese, che gli hanno insegnato a vivere con persone di diverse etnie e diverse religioni. Lo avevamo intervistato 22 anni fa (vedi l'articolo ripubblicato qui sotto), presentandolo come «il giovane prete cristiano-ortodosso che, grazie alla sua ottima padronanza dell'inglese e delle nuove tecnologie, in Kosovo sta emergendo come il portavoce dei serbi moderati presso la comunità internazionale».

Un vero uomo di Dio, che nel corso degli anni a causa della sua moderazione è finito nel mirino, oltre che degli albanesi, anche dei serbi nazionalisti. Lo hanno accusato di tutto e del contrario di tutto: di essere una spia della Cia e un agente russo, di aver commesso crimini di guerra contro gli albanesi e di proteggerli, di lavorare per i servizi di Belgrado e di essere un traditore degli interessi nazionali serbi... Ma, forte della sua fede che durante la guerra aveva portato lui e i suoi confratelli a dare rifugio nel monastero a 200 albanesi, l'abate non ha avuto cedimenti. E continua il suo percorso per costruire un Kosovo rispettoso dei diritti umani e delle libertà individuali.

Padre Sava, qual è la situazione dei serbi in Kosovo a 14 anni dall'indipendenza?

«Il Kosovo ha appena celebrato l'anniversario della sua auto-proclamata indipendenza, che non è riconosciuta dalla Serbia e dalla maggior parte degli Stati del mondo».

Ma quanti Stati dei 193 Stati rappresentati alle Nazioni Unite lo riconoscono? Secondo Pristina sono più di 100, secondo Belgrado 92...

«In realtà, diversi Paesi hanno ritirato il loro riconoscimento del Kosovo come Stato indipendente. Ma io non sono un politico, per cui preferirei evitare di parlare di questioni politiche. Vorrei concentrarmi sulle vite della nostra gente in Kosovo e Metohija. Noi viviamo qui da secoli, qui abbiamo i nostri luoghi santi e qui c'è la nostra presenza culturale-storica».

Ma com'è la vita per la comunità serba nel Kosovo indipendente?

«Non è migliorata. Anzi, sotto vari aspetti è più difficile rispetto all'immediato dopoguerra. Nel 1999 dovevamo affrontare più problemi di sicurezza ed eravamo sotto attacco, nonostante la presenza internazionale militare».

Panorama fu fra i primi a denunciarli nel 1999, appena finita la guerra...

«Dopo la guerra, tanti serbi furono costretti a lasciare il Kosovo e 150 chiese furono distrutte. Il tutto sotto gli occhi della Nato, che guidava (e tuttora guida) la missione Kfor. Devo però dire che, all'interno della Kfor, il contingente italiano è qui da 22 anni e ha sempre protetto il nostro monastero. È solo grazie alla presenza degli italiani, al loro impegno e al loro duro lavoro, se questo monastero si è salvato. Altrimenti molto probabilmente sarebbe un mucchio di macerie».

Quindi siete soddisfatti dell'operato della Kfor?

«I soldati italiani, assieme ai colleghi degli altri Paesi, ci garantiscono una vita relativamente normale, anche se abbiamo molti problemi con le autorità del Kosovo. Dopo il 2008, quanto gli albanesi kosovari hanno proclamato la loro indipendenza, siamo stati esposti a ulteriori pressioni. Molte leggi non vengono rispettate, le decisioni giudiziarie non sono osservate... Possiamo dire che stiamo vivendo in una condizione di discriminazione etnica e di negazione dei diritti fondamentali. Ma, qualunque cosa sia il Kosovo (per alcune persone un Paese indipendente, per i serbi parte della Serbia), noi viviamo qui e rispettiamo le leggi vigenti. Molti di noi hanno documenti del Kosovo perché altrimenti non potremmo condurre una vita normale. Però, naturalmente, siamo anche cittadini della Serbia».

Avete doppia cittadinanza?

«Sì. E sosteniamo il dialogo fra Belgrado e Pristina sulla “normalizzazione delle relazioni”, qualsiasi cosa ciò voglia dire».

E mentre è in corso questo dialogo, il vostro monastero è stato cancellato da Google maps... Come l'avete scoperto?

«Alcuni visitatori internazionali erano in arrivo al monastero. Poiché non ci sono cartelli che lo indichino, abbiamo detto loro di seguire Google maps. Ma il motore di ricerca li mandava in centro città. E pensare che non è la prima volta che succede: è la terza».

Le altre due volte dove avevano spostato il monastero?

«La prima volta, nel 2016, era stato localizzato fuori dal Kosovo, 200 chilometri a Est di Decani, a Leskovac. La seconda volta era stato identificato con il nome di un hotel, Lalaja e Decanit, posseduto da un kosovaro albanese, a quattro chilometri da qui. Questo può essere fatto solo da amministratori regionali di Google maps su input della popolazione locale, che fornisce informazioni false. Si tratta di una grave intimidazione».

Arrivata in concomitanza con l'anniversario...

«Di solito le provocazioni vengono fatte in occasione delle festività, come il giorno della bandiera albanese, il 28 novembre. In quei giorni siamo sempre molto attenti. Per evitare problemi, raramente lasciamo le nostre case o i monasteri».

Ma perché cancellare il monastero da Google maps?

«Perché, al di là dell'aspetto simbolico, Google maps è l'unico strumento per trovare il monastero. Se si viene a Decani in macchina, non c'è alcun cartello che lo indichi. Senza Google maps, molte persone sbagliano strada. Esiste un'unica insegna che dice «Monastero di Decani, monumento Unesco», in inglese, albanese e serbo, ed è di fronte al check-point della Kfor, che non può essere distrutto perché protetto dalla Kfor. Abbiamo chiesto di mettere simile cartello in città, per i turisti, ma il Comune di Decani si è rifiutato. In realtà c'è un disegno deliberato per far sparire il monastero dal sistema informativo».

Addirittura?

«Anni fa il Comune di Decani ha progettato un cartello per pubblicizzare le tre più importanti attrazioni della zona, finanziato anche dall'Unione europea. Naturalmente l'Ue non sapeva che cosa avrebbero raffigurato. Ebbene, hanno scelto tre foto: un vecchio mulino, una capra e una montagna».

Niente monastero?

«Niente. Si immagini un turista che arriva a Roma e anziché vedere pubblicizzato il Colosseo, San Pietro e il Pantheon, vede pecore al pascolo, una collina e un ponte. Surreale...».

Come avete reagito?

«Abbiamo fatto presente la cosa all'Unione europea, ma purtroppo ormai nessuno controlla più in che modo i comuni usano i finanziamenti internazionali. Ormai il Kosovo è considerato indipendente».

Quell'insegna è stata poi affissa?

«Certo (vedi foto nella galleria qua sotto). Ma non è un caso isolato: quasi tutti i monumenti serbi non sono correttamente indicati. Il Kosovo ha quattro monumenti sulla lista dei patrimoni mondiali dell'umanità dell'Unesco. Tutti e quattro sono serbo-ortodossi: il Patriarcato di Pec, i monasteri di Decani e di Gracianica e la cattedrale di Nostra Signora di Ljeviš a Prizren. Ma al Kosovo questi monumenti non interessano, perché sta cercando di crearsi una nuova iconografia. Ora vanno molto le statue dei guerriglieri dell'Uck».

Il Kosovo preferisce le statue dei guerriglieri dell'Uck alle chiese medioevali protette dall'Unesco?

«Nel centro di Decani ci sono tre statue di guerriglieri dell'Uck con i Kalashnikov in pugno, dozzine di bandiere della Repubblica albanese, una grande bandiera dell'Uck e un grande poster di Ramush Haradinaj».

Il leader dell'Uck accusato di crimini di guerra dal Tribunale dell'Aja?

«Sì, però è stato assolto, perché molti testimoni o sono morti in modo accidentale o si sono tirati indietro al momento di parlare in tribunale. Si ritiene che ci sia stata un'enorme pressione. Ora il tribunale dell'Aja sta organizzando un migliore programma dei testimoni, a cui viene cambiata l'identità in modo che non possano essere trovati dalla mafia albanese. È molto pericoloso parlare dell'Uck in Kosovo. Non conosco nessun albanese kosovaro che criticare in pubblico il trattamento riservato al monastero di Decani. In privato magari lo fanno, ma in pubblico nessuno si azzarda: c'è un clima di intimidazione».

E pensare che, durante la guerra, voi avete ospitato nel monastero circa 200 albanesi...

«Sì, avevamo dato loro rifugio. E ci eravamo anche scagliati contro Slobodan Milosevic. Non a caso, quand'era vice-presidente degli Usa, Joe Biden venne a farci visita, perché considerava il monastero di Decani un luogo di pace. Noi non meritiamo la pressione che ci infligge il governo e il trattamento che ci riservano i media del Kosovo. Tutto ciò dimostra che c'è la volontà di eliminarci il prima possibile, cambiando la storia».

In che senso?

«La leadership kosovara sta cercando di sostenere che in origine le nostre erano chiese albanesi, poi occupate dai serbi».

Ma come? È fuor di dubbio che le chiese del Kosovo sono serbo-ortodosse...

«In sostanza, sostengono che noi serbi non abbiamo mai vissuto qui come popolazione indigena e che siamo solo invasori, violentatori e criminali... Ma non c'è tanto da stupirsi: è una tipica operazione di cancellazione della storia. Quando le frontiere cambiano, si creano nuove identità e quelle precedenti vengono cancellate. La stessa cosa sta avvenendo in Caucaso».

In Caucaso?

«L'Azerbaigian tenta di negare l'origine armena dei monasteri che sorgono nei territori di cui ha assunto il controllo durante la guerra del 2020. Il governo di Baku sostiene che quelle chiese sono un'eredità dell'Albania caucasica, un antico regno che sorgeva dove ora si trova l'Azerbaigian».

Lei ha detto che presto sarà molto difficile vivere in Kosovo per i serbi.

«Lo è già. Non so quante persone saranno in grado di sostenere tutta questa pressione. Ma noi, monaci e monache, rimarremo qui qualunque cosa accada. Il monastero di Decani ha resistito per 700 anni, cinque secoli sotto gli Ottomani. Nessuno sarà in grado di rimuoverci fisicamente da qui: noi vogliamo stare vicino alla nostra comunità e a tutta la gente del Kosovo. Certo, la presenza di Kfor è fondamentale. Vorrei ringraziare in particolar modo i militari italiani, assieme al governo di Roma, per il loro fermo sostegno e la loro comprensione».

L'abate Sava Janijc

Kosovo: la vendetta contro i serbi (Le serie storiche di Panorama/pubblicato il 19 agosto 1999)

Il generale Michael Jackson, comandante Nato della Kosovo Force (Kfor), cauto: «Le nazioni della Kfor non hanno mandato truppe per liberare il Kosovo da un regime brutale solo perché venisse rimpiazzato con un altro». L' amministratore Onu Bernard Kouchner, più diretto: «Il mondo è intervenuto in Kosovo per metter fine alla sofferenza, alla ingiustizia e agli assassinii. Ma non per rendere il Paese sicuro per la vendetta e l'intolleranza». Un anonimo funzionario dell'Onu, esplicito: «La Nato e le Nazioni Unite hanno fallito: sotto gli occhi di 37.500 soldati e di migliaia di osservatori internazionali, in Kosovo è in corso una sistematica contro-pulizia etnica compiuta dagli albanesi contro i serbi. Non bastasse, il Paese si sta trasformando in una seconda Albania, dove pullulano criminali che trafficano in droga, prostituzione e auto rubate».

Tre sfumature diplomaticamente diverse per esprimere lo stesso concetto: dopo l' accordo militare fra Nato e Jugoslavia (9 giugno 1999), gli albanesi si sono trasformati da vittime in carnefici. E non si sono limitati alla vendetta. Come denuncia la Chiesa serbo-ortodossa, «gli albanesi stanno portando avanti una distruzione sistematica di ogni traccia di presenza serba per creare un Kosovo etnicamente puro». Dal momento in cui si sono ritirati i soldati di Belgrado, gli estremisti albanesi hanno cominciato a massacrare civili inermi, a devastare le chiese cristiano-ortodosse (40 danneggiate o distrutte in un mese e mezzo) e a seminare il terrore fra la popolazione per indurla a fuggire.

In un paio di mesi sono partiti 180.000 serbi su poco più di 200.000, quelli rimasti fremono di paura asserragliati in casa o rifugiati nei conventi come contadini durante le razzie lanzichenecche. Storie di ordinaria pulizia etnica, che sotto il cielo dei Balcani si ripropongono giorno dopo giorno, come i grani di un rosario interrotto ai misteri dolorosi e mai arrivato al riscatto della gloria e del perdono.

Oggi i serbi, ieri gli albanesi, l'altro ieri i musulmani e i croati... Ma rispetto alla Bosnia e alla Croazia, in questo caso la posta in gioco è molto più alta: la missione di pace in Kosovo rischia di trasformarsi nella sconfitta della comunità internazionale. Con tutte le parole spese sul rispetto dei diritti civili in Kosovo, e le bombe lanciate sulla Serbia per imporlo, la Nato e l'Onu non possono ora tollerare la riproposizione speculare delle stesse violenze e degli stessi soprusi che avevano così duramente combattuto.

Un rischio di cui sono ben consapevoli: lo dimostra la sterzata del generale Jackson che il 9 agosto, per frenare l'Uck in azione contro i serbi nella città di Mitrovica, ha ordinato ai suoi uomini «tolleranza zero» (il risultato è stato immediato: il giorno dopo sono stati fermati 78 presunti membri dell'Uck). Ma lo dimostra ancor di più la condizione in cui versa Kouchner, il governatore Onu ormai inviso a tutti gli albanesi per la sua volontà di creare un Kosovo multietnico. «È sull' orlo di una crisi di nervi» sussurrano con preoccupazione gli osservatori internazionali a Pristina. E c'è già chi scommette che non reggerà fino a Natale.

Ma che cosa sta succedendo in Kosovo? La comunità internazionale è in grado di fronteggiare l'emergenza o la situazione le è già scappata di mano? Per cercare una risposta a queste domande, Panorama ha fatto un viaggio nelle retrovie della missione di pace che rischia di diventare uno gravissimo smacco per l'Onu e la Nato. Ecco alcuni fotogrammi dal pantano di fine millennio.

L' impotenza dell'Onu

Pristina, una notte d'inizio agosto. Un' interprete serba che lavora per le Nazioni Unite viene assalita da una banda dell'Uck: vogliono che lasci immediatamente il suo appartamento a una famiglia «ariana» di albanesi. La donna chiama il servizio di sicurezza dell'Onu, che si precipita a casa sua in due minuti. Gli uomini dell' Onu chiedono aiuto via radio ai soldati britannici della Kfor. Che non si fanno vedere per tutta la notte. E i poliziotti Onu? Su oltre 3.000 previsti, ne sono arrivati solo 400. E per giunta non ancora operativi. Se mancano i poliziotti, abbondano le auto: alle ore 11.55 del 4 agosto, nel parcheggio del quartier generale di Pristina ci sono 66 Toyota 4Runner 3.000 Turbo-diesel nuovissime. Valore: circa 3 miliardi e 300 milioni di lire. Come mai sono tutte nel parcheggio? Non dovrebbero essere operative?

La rabbia dei soldati

Posto di blocco della Kfor italiana. Un veterano delle missioni nei Balcani si sfoga: «Come a Sarajevo, anche qui pensavamo di dover difendere i musulmani. Invece ci tocca difendere i serbi. Ma gli albanesi stanno esagerando: se sono qui è solo merito della Nato. Come si permettono di fare i gradassi? Stiano attenti, perché se continuano così arriva la Nato e dà una bella batosta a tutti quanti». Nel frattempo, il soldato provvede ad avvisarli: «Quando uno di questi cialtroni si mette a fare il bulletto, io gli dico: "Ehi, bimbo: fly down or fly Nato"». Vola basso o vola la Nato.

La paura dei volontari

Kosovo orientale. «I serbi? Mi dispiace per loro perché stanno vivendo una situazione veramente drammatica, ma non intendiamo parlarne. Sarebbe troppo pericoloso per noi». È la risposta amara della responsabile di un'organizzazione non governativa che lavora in Kosovo con i rifugiati. «Non siamo codardi» precisa la ragazza. «È che dobbiamo proteggere i nostri volontari: questo è diventato un Far West. E gli albanesi sparano».

La Babele della Nato

Inizi di giugno. Zivorad Igic, vicepresidente socialista del consiglio comunale di Pristina, è nella sua casa a Babin Most, a nord della capitale. Una sera si presentano dei ladri. Il politico chiama i soldati britannici della Kfor, che accorrono in pochi minuti. Prendono i ladri, li mettono contro il muro, verificano che non hanno armi e li lasciano liberi. Dopo di che se ne vanno. I ladri continuano indisturbati. A quel punto, Igic richiama gli uomini della Kfor, che per fortuna arrivano con un interprete. E capiscono così la ragione per cui erano stati chiamati: un tentativo di furto, non di assalto armato.

Le menzogne degli interpreti

Monastero di Decani, ore 13.30 di martedì 3 agosto. L' abate Theodosio sta mostrando al generale Francesco Cervoni, capo di stato maggiore dell'Esercito italiano, i magnifici affreschi trecenteschi della sua chiesa. Lunga barba bionda, occhi azzurri dov'è condensata una tristezza infinita, l'abate sembra un mistico medioevale. Invece è un uomo del suo tempo: durante la guerra ha ospitato circa 200 albanesi nelle mura del convento e adesso non esita a denunciare la tragedia del suo popolo. Peccato che le sue parole non arrivino al mittente: anziché tradurre fedelmente, l'interprete albanese smorza i toni, cambiando i tempi verbali o addirittura il senso delle frasi. «La popolazione serba è stata costretta a fuggire» dice per esempio l'abate. Traduzione: «La popolazione serba si trovava in cattive condizioni». Un caso isolato? No. «Da più parti ci segnalano casi di interpreti albanesi che fanno di tutto per mettere in difficoltà i serbi» denuncia padre Sava Janijc, il giovane prete cristiano-ortodosso che grazie alla sua ottima padronanza dell'inglese e delle nuove tecnologie in Kosovo sta emergendo come il portavoce dei serbi moderati presso la comunità internazionale. «D' altra parte, che cosa dobbiamo aspettarci? Nella Kfor americana gli interpreti albanesi indossano addirittura la divisa delle truppe statunitensi. E quelli serbi praticamente non esistono. Con buona pace dell' equidistanza».

L' immobilismo degli italiani

Come si stanno comportando i soldati italiani della Kfor? «Molto bene» è la risposta di Teuta K., 26 anni, albanese di Pristina, economista. Perché? «Perché hanno lasciato che gli albanesi bruciassero le case dei serbi mentre i proprietari si erano rifugiati nelle chiese protette dai soldati». Ma è vero? Risponde il vescovo Atanasije del patriarcato di Pec, praticamente il Vaticano della Chiesa serbo-ortodossa. «Sono falsità fatte circolare dagli albanesi per seminare zizzania. Quello che io in sincerità posso dire è che ogni volta che abbiamo avuto bisogno gli italiani ci hanno aiutato. Anche gli spagnoli. I latini, diciamo». Questo è vero: il patriarcato è protetto 24 ore su 24 da cinque carri armati e da una cinquantina di uomini. Altrettanto vero, però, che la zona italiana, assieme a quella tedesca, è l'area da cui sono fuggiti più serbi. Prima della guerra, nella sola città di Pec ce n'erano 15.000: ne sono rimasti tre. Nella vicina Decani ce n' erano 620: non ne è rimasto nessuno. A Djacovica erano in 3.000: ora sono otto. Quella degli italiani è anche l' area dove sono state distrutte più case e più chiese. «L' unica cosa che facciamo è spegnere gli incendi» ammette candido un giovane soldato. Per spegnere quegli incendi (e poco altro) i contribuenti italiani spendono ogni mese almeno 44 miliardi di lire solo in stipendi. Lo stipendio di un soldato semplice si aggira intorno ai 7,3 milioni. Fatta una media (bassa) di 8 milioni e moltiplicata per 5.500, il numero dei connazionali dispiegati in Kosovo, arriviamo a 44 miliardi. Nota bene, solo di stipendi: tutto il resto è fuori. A quanto ammonta la spesa totale? Nessuno è in grado di dirlo.

Elisabetta Burba

Ma è vero che gli italiani appoggiano l'Uck? Intervista al generale Mauro Del Vecchio (Le serie storiche di Panorama/pubblicato il 19 agosto 1999)

Il brigadier generale Mauro Del Vecchio, 53 anni, romano, è il comandante della Brigata multinazionale Ovest della Kfor, il contingente Nato composto da 7.000 uomini (5.500 italiani, 1.200 spagnoli, 300 portoghesi) dispiegato nella parte occidentale del Kosovo. Compito principale della brigata, garantire ordine e sicurezza. Un compito mancato: dei circa 50.000 serbi che vivevano nella zona ne sono rimasti alcune decine sparsi fra monasteri e chiese e un migliaio asserragliati nella enclave di Gorazdevac, bombardata il 10 agosto da estremisti albanesi.

Generale Del Vecchio, gli albanesi sono soddisfatti di voi perché dicono che gli avete permesso di bruciare le case dei serbi.

«Non è vero. Le case dei serbi sono state incendiate in tutto il Kosovo. Noi abbiamo cercato di spegnerle, con i mezzi che avevamo e tra l'ostilità aperta degli albanesi. Lo stesso problema l'hanno avuto i tedeschi».

Intende dire che è l'intera Kfor ad avere fallito?

«No, la Kfor fa quello che può. In una realtà dilaniata da lotte clandestine di secoli e secoli, dobbiamo insegnare le regole civili della convivenza, il rispetto dei diritti umani, la democrazia... È proprio quello che noi italiani stiamo cercando di fare».

Ma con chi? Con i tre serbi rimasti a Pec?

«Beh, se è per questo a Gorazdevac ce ne sono un migliaio. Ma voglio mettere in chiaro una cosa: i serbi se ne sono andati prima del nostro ingresso a Pec».

A dire il vero, ne ho visti partire due pulmini proprio ieri pomeriggio.

«Se è per questo, ce ne sono anche alcuni che sono tornati».

Quanti?

«Centocinquanta, un mese fa. È a loro che dobbiamo cercare di cambiare la mentalità».

Ma allora quante generazioni dovranno restare qui i soldati italiani, a spese del contribuente?

«Non lo so. Quello che so è che non dobbiamo essere pessimisti, che dobbiamo cercare di far nascere qualcosa di positivo».

Elisabetta Burba

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Elisabetta Burba