Libano, sul fronte anti Hezbollah - Video
Reportage esclusivo dai territori dove l’esercito israeliano combatte i soldati del «Partito di Dio». E dove Cristiani, sunniti e sciiti non-allineati vorrebbero farla finita con la guerra. Tra paura dei filo-iraniani e speranza di riprendersi il Paese
Beirut (Libano) - Il fumo grigiastro si alza dalla roccaforte sciita di Dahieh, sobborgo meridionale di Beirut martellato dalle bombe israeliane. Sul tetto dell’albergo, che domina la zona, arriva di corsa una ragazza che abita da quelle parti. «Non ne posso più. I libanesi non stanno tutti con Hezbollah» sbotta. «Li odio. Non è la mia guerra. Vivo in una zona mista: gli israeliani bombardano gli sciiti, ma abbiamo paura anche noi». Davanti alla telecamera, però, non parla per timore di rappresaglie. Cristiani, sunniti e anche sciiti non in linea con Hezbollah vorrebbero farla finita con «lo Stato nello Stato» dei giannizzeri di Teheran.
Nessuno sembra in grado di ribaltare la situazione, ma Panorama ha viaggiato a lungo in Libano fra chi sta alzando la testa. Achrafieh è il quartiere di Beirut est, che durante la guerra civile era l’ultima ridotta cristiana attaccata da tutti. In piazza Sassin svetta una grande statua bianca della Madonna e un gruppo di amici gioca a backgammon. «Dalla fine di quel conflitto, nel 1990, tutte le milizie hanno consegnato le armi al governo, a parte Hezbollah. Per questo siamo contro di loro» spiega Joe Haddad, croce d’argento al collo e pistola alla cintola. «Se in Italia sventolano in piazza le bandiere gialle (del Partito armato sciita, ndr)» sottolinea, «ricordo che quando i siriani ci massacravano nessuno manifestava per noi in Europa».
Tabaris è la linea di «confine» con Beirut ovest, zona musulmana della capitale. Il traffico è continuo, ma ai tempi della guerra civile c’era solo un silenzio di morte interrotto dai tiri dei cecchini. Gaby Abousleiman, affermato avvocato, da giovane ha comandato le linee di difesa del Settore 10 lungo Tabaris. «Con i lanci di razzi dopo il 7 ottobre hanno dato tutti i pretesti possibili a Israele per attaccare il Libano» osserva. «Questo è uno Stato fallito, che non riesce neppure a comprare le tende per gli sfollati». Ogni mattina si allena per un’ora di arti marziali e a casa tiene ancora il fucile e la divisa dei falangisti di Bashir Gemayel. «Non tornerà la guerra civile perché siamo troppo deboli e lo Stato è nelle mani di Hezbollah» taglia corto, disilluso. «Altro che messaggio di pace come dice il Papa, il solo messaggio del Libano è che le comunità diverse non possono vivere assieme. L’unica soluzione sarebbe separarsi una volta per tutte tornando la Svizzera dell’Oriente».Molti sfollati dei villaggi cristiani del sud, campo di battaglia fra Hezbollah ed esercito israeliano, trovano ospitalità nelle case di parenti e amici ad Achrafieh. Thereza Shoufani ha i capelli grigi e lo sguardo spento. La figlia Amalia è scappata da Rmaish a un passo dalla Linea blu, il confine provvisorio fra Libano e Israele.
«Gli ultimi 15 giorni non riuscivo a dormire per le bombe da una parte e dall’altra, artiglieria, droni, razzi» racconta davanti all’immagine di un santo maronita. «Padre Naijb al Amil ha raccolto le persone in chiesa dicendo che dalla nunziatura apostolica di Beirut assicuravano che gli israeliani non avrebbero attaccato il villaggio se non c’era Hezbollah».
Settemila anime, tutte cristiane, ma i miliziani sciiti «hanno provato a entrare per lanciare i razzi coprendosi fra le nostre case, però la popolazione si è opposta con la forza». Suo marito Elias, ex ufficiale di polizia, è rimasto a Rmaish dove lo raggiungiamo al telefono. «Siamo terrorizzati, giorno e notte bombardano tutt’attorno» dice, prima che cada la linea. Ripristinata la comunicazione, Thereza ha paura di parlare del Partito di Dio, ma a un certo punto si lascia andare: «Se vogliono combattere Israele e appoggiare Gaza è la loro guerra non la nostra. Desideriamo soltanto la pace e invece stanno distruggendo il Paese».
I tornanti scalano le montagne a nord di Beirut fino a Merab, la roccaforte delle Forze libanesi, il più forte partito cristiano all’opposizione. Un doppio posto di blocco presidia la «tana del lupo», Samir Geagea, uno degli uomini forti della guerra civile, prigioniero per 11 anni nelle segrete del ministero della Difesa, quando a Beirut comandavano i siriani. Al secondo posto di blocco giovani armati in uniforme cachi, sotto il comando di un paio di veterani, fanno controlli minuziosi. Le forze libanesi potrebbero mobilitare 12 mila miliziani e tra le foreste di Merab, oltre alla residenza blindata del leader, ci sarebbero basi e arsenali. Il 12 ottobre Geagea ha riunito i «liberatori», che vogliono disarmare Hezbollah. Un’ottantina di politici e personaggi influenti, quasi tutti cristiani, come Camille Chamoun, il nipote del secondo presidente libanese.
Manca all’appello Sami Gemayel del partito Kataeb e tra i musulmani spicca solo l’ex generale sunnita, Ashraf Rifi, che ha contrastato con l’intelligence militare l’influenza siriana e iraniana. Personaggio che non ha mezze misure: «Non siamo d’accordo con Hezbollah e non ci piacciono. Fanno parte del regime di Teheran, ma la faremo finita con il potere iraniano in Libano». Geagea, barba grigia, affaticato dall’età, rimane lucido nel lanciare l’appello sottoscritto da tutti: «Oggi il Libano è una nave che affonda senza un capitano». Il conclave carbonaro di Merab punta a una «road map» per il cessate il fuoco, ma anche l’elezione del presidente che per costituzione dev’essere cristiano. Hassan Nasrallah, il longevo leader di Hezbollah, prima di venire eliminato, ha bloccato per due anni la nomina perché voleva imporre un suo candidato, Soleiman Frangieh. Adesso Stati Uniti e Francia puntano su Joseph Aoun, capo di Stato maggiore delle forze armate libanesi. «Un presidente che conceda all’esercito libanese tutti i poteri necessari per garantire che non esistano armi od organizzazioni di sicurezza al di fuori del controllo dello Stato» recita la dichiarazione, «in difesa del Libano». E vengono espressamente citate le risoluzioni dell’Onu che avrebbero già dovuto imporre il disarmo delle milizie e il ritiro di Hezbollah a nord del fiume Litani lontano dal confine con Israele.
Una sfida a Hezbollah che ha fatto dell’area una piazzaforte anche sotterranea, sotto il naso dei caschi blu dell’Onu. Non a caso nella piazza principale di Sidone, città costiera meridionale, c’è una gigantografia di Geagea, bollato come agente sionista, sovrastata dalla stella di Davide. «Liberatevi da Hezbollah. Oggi è debole. Siete a un bivio, la scelta è vostra. Potete riprendere il controllo del Paese e rimetterlo su un sentiero di pace e prosperità» è l’appello lanciato direttamente in inglese dal premier israeliano Bibi Netanyahu. «Anche se indebolito dalla decimazione dei vertici, Hezbollah è ancora forte e conta su 50 mila uomini e altri 15 mila di riserva» spiega una fonte occidentale di Panorama a Beirut. «Esiste il rischio di scontri con le forze libanesi e gli altri contrari allo strapotere sciita, ma la gente non vuole tornare all’incubo della guerra civile».
Il giovane vicesegretario generale delle Forze libanesi, Jade Dimien, ribadisce che «Hezbollah ha deciso, in accordo con gli interessi dell’Iran, di entrare in guerra. Dobbiamo avere un solo esercito, le forze armate libanesi. Il problema principale è che il Partito di Dio è un vero Stato interno, che elimina chi si oppone come il premier Rafic Hariri». Nel viaggio verso nord, sul fronte anti-Hezbollah, una tappa obbligata è Tripoli, la roccaforte sunnita. All’ingresso della città colpisce la grande foto di Ismail Haniyeh, il leader di Hamas ucciso a Teheran dagli israeliani. Il capoluogo è un miscuglio di gruppi sunniti e siriani, spesso armati e in guerra fra loro. Il 4 ottobre scorso un raid israeliano ha eliminato il comandante delle brigate Al Qassam di Hamas, addetto al reclutamento, Saeed Atallah Ali, nel campo palestinese di Bedawi a Tripoli con tutta la famiglia.
«Hezbollah non è solo uno “Stato nello Stato”, come si afferma comunemente. È diventato lo Stato stesso e il Libano è una nazione di copertura diventata satellite dell’Iran» è convinto Misbah Ahdab, per 13 anni parlamentare indipendente sunnita, che ci accoglie nella sua casa. «Bisogna disarmare Hezbollah. Devono consegnare le armi all’esercito libanese, che rappresenta la legittimità. Così Nethanyahu non avrebbe più il pretesto per bombardare il Libano» spiega in perfetto italiano. Tripoli «è un cocktail esplosivo che può detonare in qualsiasi momento».
Dal vicino confine siriano arrivano di continuo giovani volontari iracheni fra i 18 e i 23 anni, inviati dalle formazioni armate sciite in Iraq a dare man forte ai correligionari libanesi. «Pochi giorni fa ho scritto un tweet dicendo che Hezbollah dovrebbe consegnare le armi» racconta l’ex deputato. «Trecentomila visualizzazioni e tante chiamate dei tripolini che condividono le mie parole».
L’attacco israeliano ha avuto come conseguenza l’arrivo nell’area di 150 mila sfollati, sia sciiti che siriani, fuggiti in Libano dalla guerra civile nel loro Paese. Nell’affascinate suk da mille e una notte nessuno vuol parlare, a parte un coraggioso insegnante di italiano Maher Awad. «La gente ha paura di tre cose» spiega. «La prima che qualche infiltrato di Hezbollah arrivi al nord assieme agli sfollati attirando i bombardamenti israeliani». Il rappresentante della società civile moderata aggiunge che «la seconda riguarda il cambiamento demografico di Tripoli, roccaforte sunnita. Temiamo l’aumento della presenza e influenza sciita sulla città». Il terzo aspetto, semplice, ma determinante «è che la gente ha paura di Hezbollah. Per questo nessuno vuole parlare».