La Francia «anti-americana» è sempre esistita, ben prima delle frasi di Macron
Da sempre dentro e fuori l'Eliseo esiste una parte del mondo politico e culturale (di sinistra) che guarda con fastidio a Washington
Quando George W. Bush decise d’invadere l’Iraq nel 2003, chiese l’approvazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Allora ministro degli Esteri francese era Dominique de Villepin, che avvertì l’America del fatto che Parigi non avrebbe partecipato. Quel discorso provocò nella società americana un’ondata isterica di reazioni antifrancesi, al punto che lo speaker della Camera pretese che le french fries nelle caffetterie del Congresso fossero immediatamente sostituite dalle più patriottiche freedom fries, a rimarcare la profondità della frattura creatasi tra Washington e Parigi. E, per qualche tempo, la Francia fu davvero molto impopolare in America.
Le radici di questo freddo distacco tra antichi alleati affondano, se non ai tempi delle colonie, almeno a quelli in cui il Generale De Gaulle impedì de facto l’ingresso di Londra nella Comunità Economica Europea, perché la considerava una longa manus degli Stati Uniti. De Gaulle non accettò mai l’idea che la Francia imperiale fosse diventata una potenza di second’ordine, mentre l’impero degli Stati Uniti aveva ormai assunto la leadership del mondo libero, con ciò condannando Parigi a un ruolo secondario, se non del tutto irrilevante. Complice di ciò fu, anche in questo caso, la personale antipatia di De Gaulle nei confronti del presidente Usa Theodore Roosevelt. Alla vittoria contro i nazisti nel 1945, per esempio, il Generale si spinse ad affermare: «Parigi è liberata! Si è liberata da sola!», dimenticando volutamente i sacrifici di quelle migliaia di soldati Usa che avevano dato la vita sulle spiagge della Normandia per liberare il suo Paese.
Dunque, a livello sociale, storico e di certo politico, la diffidenza da parte dei francesi verso gli americani ha radici profonde. Ha ricordato il CorSera che «quando, nel 1966, la Francia uscì dal comando militare della Nato e il Generale [De Gaulle] intimò agli americani di andarsene immediatamente dal territorio, un diplomatico chiese se l’ordine comprendesse anche le salme dei soldati sepolti a Colleville, il cimitero che il mondo conosce attraverso le immagini del film sul soldato Ryan, e che non si può visitare senza sentire un groppo alla gola. De Gaulle dovette incassare l’umiliazione, e oggi quel luogo sacro è, a tutti gli effetti, territorio americano».
All’Eliseo, insomma, l’antiamericanismo è parte di quella dottrina che lavora per la pretesa superiorità francese sul resto d’Europa (e in potenza del mondo). Una dottrina che anche Nicolas Sarkozy ha perseguito, e che oggi Emmanuel Macron prosegue e accarezza con evidente piacere. Il fatto che, dalla Normandia in poi, la Francia sia divenuta succube delle decisioni americane, è pacifico (eccezion fatta per la Libia, dove per una volta furono invece gli Stati Uniti a essere trascinati nella più sventurata delle operazioni militari dell’Alleanza Atlantica).
In ogni caso, il presidente francese continua a pensare che «l’Europa non deve lasciarsi coinvolgere in crisi che non sono le nostre», con i Paesi europei che non devono essere «vassalli degli Stati Uniti», e che l’Unione europea deve costruire un «terzo polo» rispetto a Cina e Usa. Emmanuel Macron ha condiviso tutto questo parlando della sua visione politica internazionale a bordo del Cotam Unité (il velivolo presidenziale francese), neanche fosse il Papa quando rilascia la ormai consuetudinaria conferenza stampa/intervista ai giornalisti.
Un intervento quantomeno inopportuno, considerato che quell’aereo lo riportava a Parigi dopo la visita di Stato in Cina. Dunque, la sua dichiarazione calata nel contesto assume ancor più valore: le parole rilasciate sulla necessità per l’Europa di «non mettersi a seguire gli Stati Uniti» prendendo le distanze dagli Usa, sono già di per sé impegnative, specie nel momento in cui l’impegno di Washington per l’Europa e l’Ucraina si è dimostrato decisivo nel guidare le sorti della guerra in Ucraina. Ma rilasciarle a seguito di una visita di Stato in Cina - dove il presidente francese e la sua delegazione hanno stretto accordi commerciali e intese economiche di primo piano con il leader cinese Xi Jinping – è ancora più significativo.
Il concetto di «autonomia strategica europea», a dire il vero, era già stato espresso da Macron nel discorso della Sorbona del settembre 2017, a pochi mesi dal suo arrivo all’Eliseo. Ma l’idea che Pechino possa essere un partner da preferire addirittura a Washington, beh, questo suona quasi blasfemo considerate le alleanze e le interessenze attuali in Occidente. Di certo, il suo tono non è piaciuto alla Casa Bianca.
«Proprio nel momento in cui stiamo costruendo una vera autonomia strategica europea, ci mettiamo a seguire la politica americana, per una sorta di riflesso di panico – ha detto Macron —. Al contrario, le battaglie da combattere oggi consistono da un lato nell’accelerare la nostra autonomia strategica e dall’altro nel garantire il finanziamento delle nostre economie. Colgo l’occasione per sottolineare un punto: non dobbiamo dipendere dall’extraterritorialità del dollaro».
Ecco il vero punto che sembra sia stato sussurrato direttamente da Xi Jinping alle orecchie di Macron. Il progetto, cioè, di creare un nuovo sistema economico e finanziario euroasiatico che non utilizzi valute di Paesi terzi, facendo ricorso a nuovi sistemi di pagamento per consentire gli scambi e l’accesso alle materie prime nel contesto della Belt and Road Initiative (BRI). È questo l’orizzonte che sia Pechino sia Mosca intravedono.
Entrambi i Paesi, infatti, brigano da anni per trovare un’alternativa al dollaro, specie dopo l’imposizione delle sanzioni, strumento principe della geopolitica americana e vero asso nella manica nel determinare le sorti del mercato mondiale: sganciarsi dal dollaro è l’unica maniera per disinnescare lo strumento sanzionatorio. Questo progetto ha già trovato dei sostenitori: dopo Cina e Russia, insieme con gli altri Brics (Brasile, India, Sudafrica) e con i membri dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan), la creazione di uno standard sganciato dal dollaro americano potrebbe divenire realtà. Questa teoria economica – di matrice keynesiana - prevede che il valore della nuova moneta debba essere fondato sulle materie prime scambiate tra questi Paesi. L’idea piace molto anche all’Arabia Saudita, che starebbe già oggi valutando di farsi pagare il petrolio in yuan.
Dunque, se l’invasione russa dell’Ucraina ha riportato in primo piano l’indispensabile ombrello militare di Washington e della Nato, dall’altro lato ciò che rimane della grandeur francese potrebbe sostanziarsi nella guida di un’Europa con una Difesa comune: Parigi, insomma, vuole un’Europa più indipendente da Washington, ma al tempo stesso più dipendente da Parigi stessa.
Un sogno, per il momento, che tuttavia Macron accarezza per una doppia ragione: blandire Pechino in vista di grandi commesse commerciali (la visita di Stato a Pechino è stata accompagnata da decine di imprenditori francesi); e allettare le élite francesi, che hanno sempre dimostrato di apprezzare quella equidistanza di Parigi tra padroni del calibro di Washington e Pechino.
Il presidente francese sta dunque facendo il gioco di Pechino? Forze. Ma l’imbarazzo che è seguito alle sue dichiarazioni è tutto frutto della tempistica con cui sono uscite: nelle stesse ore, infatti, le forze armate cinesi simulavano un’invasione di Taiwan. Il che lascia pensare che la Francia potrebbe persino restare neutrale in uno scenario di crisi con l’isola «ribelle». Il che minerebbe di certo la deterrenza taiwanese e americana, accrescendo al contempo il rischio di un conflitto.
«Se ci lasciamo cogliere dal panico, finiremo col credere paradossalmente di essere semplici seguaci dell’America», ha aggiunto Emmanuel Macron nel corso dell’intervista in aereo. «Gli europei devono trovare risposta a questa domanda: è nel nostro interesse precipitare la crisi di Taiwan? No. La cosa peggiore sarebbe proprio quella di pensare che noi, europei, dobbiamo accettare le consegne altrui su questo argomento e seguire le indicazioni fornite dall’America, provocando una reazione spropositata da parte della Cina».
Come a dire che il rischio di invasione c’è. E che gli europei non dovrebbero «morire per Taiwan» così come non avrebbero dovuto farlo per Kiev. Eppure, la perorazione della causa ucraina è stata salutata da Bruxelles come la difesa dell’Europa stessa e della democrazia. Mentre i tentativi diplomatici di Macron stesso di convincere Putin a desistere dall’invasione, si sono rivelati inani, quando non direttamente controproducenti. Di certo, sono falliti.
Il presidente francese ha ottenuto a stento la rielezione, è contestatissimo in patria e non ha modo di ottenere un terzo mandato per legge. Questo, da un lato lo lascia libero di agire come meglio crede, nell’ottica di lasciare un’eredità politica; dall’altro, lo rende più incline a un azzardo che è potenzialmente capace di complicare le relazioni internazionali.
Xi Jinping e il partito comunista cinese hanno ovviamente accolto con gioia le dichiarazioni di autonomia strategica europee avanzate da Macron, e i diplomatici cinesi vi fanno costantemente riferimento nei loro incontri con i rappresentanti dei vari Paesi membri, nella speranza di trovare una breccia europea. Che adesso potrebbe essere un membro di peso come la Francia.
I cinesi sono più che mai convinti che l’Occidente abbia ormai imboccato il viale del tramonto, mentre credono che la Cina sia ancora in ascesa; pertanto, servono alleati che da dentro contribuiscano a far crollare l’assetto delle alleanze internazionali sulle quali l’America ha basato sinora la sua supremazia.
Tutto corretto? Forse, se non fosse che il destino dell’Occidente non è necessariamente quello del declino; che la Cina potrebbe non prendere mai Taiwan né concludere la Via della Seta; e che in fondo neanche Emmanuel Macron è lo statista che lui per primo crede d’essere. Non è riuscito Charles De Gaulle a recidere il cordone ombelicale con gli Stati Uniti, potrà mai riuscirci oggi un giovane ambizioso, contestatissimo e al suo ultimo mandato come Emmanuel Macron?