Michail Gorbaciov, icona occidentale, poco amato in Russia
L'uomo che portò alla fine della Guerra Fredda è morto; ma oggi a Mosca nessuno ne piange la scomparsa
Gli americani ne hanno fatto ben presto un’icona. Forse anche grazie al fatto che ne riconobbero da subito il suo carattere di uomo contemporaneo. E trovarono straordinaria la sua capacità comunicativa e la sua stessa immagine, senz’altro aiutata da quella originale voglia di fragola o di chissà cos’altro, così cinematografica che fu immortalata in molte pellicole degli anni Ottanta e su cui si è fantasticato a lungo.
Fatto sta che Michail Gorbaciov ha cambiato le relazioni internazionali tra Stati Uniti e Unione Sovietica. E dunque gli equilibri del mondo. Addirittura il New York Herald Tribune nel dicembre 1987 lo mise in prima pagina con il titolo: «The Great American Hero ‘87: Gorbachev», facendolo diventare un volto popolare, se non addirittura familiare, nei salotti degli americani. Al punto che nei grandi magazzini di New York e Los Angeles si iniziarono a vendere magliette con il suo volto, insieme a quello di Lenin o della falce e martello. Tra i tanto temuti sovietici, sembrava essere il nuovo messaggio, ce n’è uno che può esserci amico. O, quantomeno, un amico della democrazia.
La sua figura, in effetti, così dirompente per le tradizioni del partito che egli ha contribuito a distruggere – e al cui interno, al contrario della Glasnost da lui tanto inseguita, ci tenevano parecchio al concetto di segretezza – lo hanno reso una figura popolare, ma assai discussa in Russia. Forse anche perché, mentre in Occidente la picconatura del Pcus e della stessa Unione Sovietica fu salutato subito come un tripudio, a Mosca e soprattutto nelle distese immense delle russie lo smarrimento fu totale. E in molti casi, anche fatale.
Quando il 23 agosto 1991, Mikhail Gorbaciov si recò al palazzo del Soviet supremo della Russia pieno zeppo di deputati, per far intendere loro che quello era l’ultimo atto da presidente dell’Urss, ma anche che quell’istituzione non c’era già più, fu accolto dai fischi. Qualche giorno prima, il 18, era stato rapito mentre si trovava in vacanza con la famiglia a Foros, in Crimea. Alcuni politici conservatori, insieme con i vertici del Kgb e dei militari, avevano tentato un colpo di stato per evitare in extremis la fine della Guerra Fredda. Ma l’Urss, complici le sue contraddizioni interne e iperboli ideologiche, era ormai già stata messa a così dura prova dall’economia statalista e dalla corsa al riarmo e al dominio del mondo, che le bastava un politico nato contadino e cresciuto tra un’officina e le aule di legge in una modesta cittadina del Caucaso, per far saltare il banco.
Quella mattina, sul podio davanti a una classe politica che si eclissava, Gorbaciov era pallido in volto come quando era sceso dalla scaletta dell’aereo dopo essere stato liberato. Forse provò dolore, di certo un senso di smarrimento. Lui sapeva di aver compiuto qualcosa di grande. Aveva rotto l’incantesimo, aperto la Russia al resto del pianeta. Ma l’eroe non era già più lui. Boris Eltsin era il nuovo padrone. Anzi, lui si doveva prendere le urla e le grida di frustrazione dei deputati, che lo accusavano di aver allevato serpi in seno, permettendo a congiurati da lui nominati di compiere un golpe in Russia. Gorbaciov avrebbe voluto parlare di riforme economiche, apertura al mercato estero e del processo di democratizzazione in corso. Ma, come riportano le cronache, Eltsin gli si avvicinò col dito puntato e gli disse sbrigativamente: «Mikhail Serghieevich, firmi qui ora e subito il decreto di scioglimento del Pcus».
Gorbaciov aveva già ricevuto il Nobel per la Pace (1990) e poteva vantare alcuni atti meritori che lo avrebbero reso per sempre una delle figure protagoniste del Novecento, come la distensione nucleare pattuita con Reagan. Ma in quei mesi convulsi in cui si compì la storia personale di Gorbaciov e del suo Paese, egli stato già isolato da un contropotere che, in definitiva, non era esattamente ciò che egli sperava per la Russia del futuro.
Alle sue spalle, Eltsin stava già negoziando i termini per la nascita di una Federazione russa indipendente, e per una diversa dottrina geopolitica. Cercando disperatamente i soldi per la ripartenza e per evitare il fallimento del Paese, il nuovo padrone della Russia si sarebbe ritrovato a consegnare nelle mani di un pugno di imprenditori le aziende di Stato. Decretando con ciò la fine prematura del sogno democratico accennato con la svolta della perestrojka, e l’inizio della Russia degli oligarchi. E di Vladimir Putin.
Dunque, da un lato l’intuizione della perestrojka – metafora di un cambiamento radicale e di una complessiva riorganizzazione dello Stato e della società russa – insieme con il suo contributo alla caduta del muro di Berlino, restano pietre miliari inscindibili dalla biografia personale dell’ottavo e ultimo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Ma, al contempo, la nuova Russia che ne è emersa ha mostrato tutti i limiti della rivoluzione gorbacioviana.
«Perestrojka è una parola dai molti significati» spiegò un giorno lo statista. «Ma se dobbiamo scegliere tra i suoi molti sinonimi quello che esprime nel modo più esatto la sua essenza, possiamo dire che la perestrojka è una rivoluzione. Un’accelerazione decisiva dello sviluppo socio-economico e culturale della società sovietica, che comporta cambiamenti radicali lungo la strada verso uno stato qualitativamente nuovo, è senza dubbio un compito rivoluzionario».
Una rivoluzione che, tuttavia, tarda ad arrivare ancora oggi. «Le domande di seri cambiamenti nel sistema, della sua democratizzazione, di riforma del sistema elettorale, sono ancora in agenda» disse intervistato nel 2012, commentando la rielezione di Vladimir Putin a presidente della Federazione russa. «Perché in precedenza, e questo mi ha fatto spesso arrabbiare, il sistema è cambiato in peggio, espellendo le persone dal processo elettorale. Deve accadere il contrario». La Russia e il mondo salutano così un politico visionario, poetico come i russi, romantico come gli europei, utopista come gli americani.