Nancy Pelosi a Taiwan, un viaggio che porta vantaggi e problemi a Biden
Resta alta la tensione tra Stati Uniti e Cina per il viaggio a Taiwan della Speaker della Camera che ha mostrato le preoccupazioni di Pechino ma anche la mancanza di una strategia forte ed unita della Casa Bianca
"Oggi la nostra delegazione è a Taiwan per chiare in modo inequivocabile che non abbandoneremo il nostro impegno nei confronti di Taiwan e che siamo orgogliosi della nostra amicizia duratura". Con queste parole si è espressa Nancy Pelosi, mentre incontrava a Taipei la presidentessa di Taiwan, Tsai Ing-wen. "Ora, più che mai, è fondamentale la solidarietà dell'America nei confronti di Taiwan. Ed è questo il messaggio che portiamo oggi", ha aggiunto la Speaker della Camera americana. "Di fronte alle minacce militari deliberatamente aumentate, Taiwan non cederà. Difenderemo con fermezza la nostra sovranità nazionale e continueremo a mantenere la linea di difesa per la democrazia", ha replicato Tsai Ing-wen, ringraziando inoltre la Pelosi per il suo "sostegno incrollabile".
Nel frattempo, non si placano le tensioni diplomatiche tra Pechino e Washington. In nottata, il ministero degli Esteri della Repubblica popolare ha convocato l’ambasciatore statunitense in Cina, Nicholas Burns. In particolare, Pechino ha affermato che la visita della Speaker costituirebbe una violazione della sovranità cinese, aggiungendo che la questione taiwanese risulterebbe “un affare puramente interno alla Cina”. Come ritorsione, la Repubblica popolare ha avviato delle esercitazioni militari, lanciando missili nel mare a Est dell’isola. La Casa Bianca, dal canto suo, ha ribadito poche ore fa che il viaggio della Speaker non rappresenta un cambiamento nella politica dell’unica Cina condotta dagli Stati Uniti. La situazione complessiva resta tesa.
Cominciamo col sottolineare che, differentemente da quanto sostiene la propaganda del Partito comunista cinese, la questione taiwanese non è un affare interno alla Cina. A seguito della guerra civile negli anni Quaranta tra comunisti e nazionalisti, questi ultimi si ritirarono sull’isola, insediandovi il governo della Repubblica di Cina. Ebbene Taiwan non ha mai riconosciuto né è mai stata sotto il controllo della Repubblica popolare cinese, istituita da Mao Zedong nel 1949. Ne consegue che l’isola non è una “provincia ribelle” e che la visita in loco di parlamentari occidentali non costituisce una violazione della sovranità di Pechino.
Il problema della visita della Pelosi è semmai un altro. Sarebbe infatti stato opportuno che la Speaker e Joe Biden avessero preventivamente messo a punto una linea comune a porte chiuse, evitando di mostrare delle divergenze davanti al mondo. D’altronde, secondo quanto riferito dal New York Times, quando l’allora Speaker della Camera, il repubblicano Newt Gingrich, visitò Taiwan nel 1997, si coordinò prima con l’amministrazione Clinton (che era democratica). Ciò non è accaduto stavolta, sebbene Biden e la Pelosi appartengano paradossalmente entrambi al medesimo partito. Negli scorsi giorni, il presidente americano aveva lasciato chiaramente intendere di non gradire un eventuale viaggio della Speaker sull’isola. Tale divergenza coram populo ha quindi trasmesso un’immagine di divisione ai vertici istituzionali americani: un elemento, questo, che rischia di indebolire la capacità di deterrenza della Casa Bianca nei confronti di Pechino.
Certo: è stato fatto giustamente notare che la Pelosi, in quanto alto rappresentante del potere legislativo, non deve rendere conto delle proprie scelte alle alte sfere del potere esecutivo. Tuttavia la complessità della questione non può essere derubricata a un fattore puramente tecnico. La deterrenza implica forza e la forza, a sua volta, implica unità di intenti. Quell’unità che non si è platealmente registrata ai vertici istituzionali statunitensi su un dossier delicato come quello taiwanese, proprio mentre la Repubblica popolare si sta mostrando sempre più aggressiva (ricordiamo che, dallo scorso ottobre, il Dragone ha ripreso a esercitare energicamente pressione militare e politica su Taipei). A questo si aggiunga che, almeno finora, l’amministrazione Biden non si è contraddistinta per compattezza sul dossier cinese: se il Dipartimento di Stato auspica (giustamente) la linea dura sui diritti umani, quello del Tesoro invoca invece una distensione per facilitare gli scambi commerciali. Senza poi dimenticare che l’inviato speciale per il clima, John Kerry, è da sempre favorevole a tendere la mano a Pechino in nome della cooperazione climatica. Tutte queste divisioni non fanno che azzoppare la deterrenza statunitense, aumentando così i rischi per la libertà di Taiwan.
Se ti mostri debole, diviso e irresoluto, i tuoi nemici ne approfitteranno: questa, piaccia o meno, è la legge ferrea dei rapporti internazionali. La pace non si preserva con i summit, ma incutendo timore ai nemici e dissuadendoli pertanto dall'agire. Il problema non è quindi la visita in sé di Nancy Pelosi: una visita che, come abbiamo visto, non viola affatto la sovranità di Pechino (con buona pace della retorica tanto cara al Partito comunista cinese). Il problema è che questo viaggio si sarebbe dovuto in caso inserire nel contesto di una strategia coerente di deterrenza da parte di Washington. Questo purtroppo non è accaduto. La Casa Bianca deve quindi agire in fretta, per mettere in campo un’adeguata politica di dissuasione nei confronti della Cina: una politica che esige forza, compattezza e una discreta dose di spregiudicatezza. Il tempo stringe, mentre il Dragone si sta facendo sempre più pericolosamente aggressivo. Biden deve capirlo. E alla svelta.
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