Niger
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In Niger l'intervento militare rischia di essere l'unica opzione

Per cercare di comprendere cosa sta accadendo in Niger ma soprattutto cosa succederà domani abbiamo intervistato Giuseppe Manna analista di geopolitica con focus sui Paesi africani e mediorientali

Termina oggi l’atteso vertice dei capi militari dell'Africa occidentale e si tratta del primo incontro da quando l'Ecowas, la settimana scorsa, ha ordinato «il dispiegamento di una forza di riserva per ripristinare il governo costituzionale in Niger». Si tratta del primo incontro da quando la Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale (Ecowas) ha ordinato «il dispiegamento di una forza di riserva per ripristinare il governo costituzionale in Niger». Poco prima della riunione il capo di stato maggiore della difesa della Nigeria, il generale Christopher Gwabin Musa, ha dichiarato che «l’obiettivo del nostro incontro non è semplicemente quello di reagire agli eventi, ma di tracciare in modo proattivo un percorso che porti alla pace e promuova la stabilità. La democrazia è ciò che sosteniamo e incoraggiamo».

Meno diplomatica la dichiarazione di Abdel-Fatau Musah, commissario per la sicurezza dell’Ecowas: «L’ordine costituzionale sarà ripristinato con ogni mezzo disponibile. Tutti gli Stati membri, ad eccezione dei paesi sotto controllo delle giunte militari e di Capo Verde, sono pronti a partecipare ad un intervento militare». In attesa di sapere se e quando l’Ecowas interverrà militarmente si stima che le truppe interessate dall’operazione sarebbero circa 25.000 provenienti da Nigeria, Costa d'Avorio, Senegal e Benin, ma secondo alcuni esperti per mobilitarli, specie in un’area come questa, potrebbero essere necessarie settimane o addirittura mesi.

La giunta golpista fino ad oggi è rimasta sorda a qualsiasi richiesta di liberare il deposto presidente Mohamed Bazoum e ha nominato il suo premier l’economista Ali Mahaman Lamine Zeine che in un'intervista al tedesco Deutsche Welle in merito alle misure prese dalla Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale (Ecowas) ha affermato: «Pensiamo che, anche se ci è stata imposta una sfida ingiusta, dovremmo essere in grado di superarla». I golpisti hanno anche nominato il nuovo esecutivo composto da ventun ministri tra i quali i ministri della Difesa e dell'Interno sono generali del Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria che ha preso il potere, rispettivamente il generale Salifou Mody e il generale Mohamed Toumba.

Per cercare di comprendere cosa sta accadendo in Niger ma soprattutto cosa succederà domani abbiamo intervistato Giuseppe Manna analista di geopolitica con focus sui Paesi africani e mediorientali nonché esperto di questioni marittime.

Si parla tanto di risolvere la crisi con la diplomazia ma che accordo potrebbero trovare i golpisti che non hanno alcuna intenzione di rimettere al suo posto il presidente Mohamed Bozoum, e l'Ecowas?

In questo momento la strada della soluzione diplomatica appare come la più difficile da percorrere, anche a causa della rigidità delle rispettive posizioni. Ne è testimonianza il fallimento quasi immediato del timido tentativo di mediazione portato avanti dal Ciad. A livello continentale, non sembrano esserci attori ai quali le parti contrapposte riconoscano un’autorevolezza tale da gestire la crisi. Nemmeno l’Unione africana è nella posizione di mediare in ragione della netta contrarietà all’intervento armato dell’Ecowas in Niger. L’Unione europea e i suoi Stati membri sono poi da escludere perché percepiti sempre di più come animati da feroci appetiti neocoloniali. L’occasione potrebbe invece essere ghiotta per americani, cinesi e russi. Aggiudicarsi il merito di aver disinnescato un potenziale conflitto armato su scala regionale sarebbe un enorme successo diplomatico e comporterebbe un rafforzamento netto della proiezione del mediatore di successo nel cuore strategico dell’Africa. Ragionando in termini di cruda realpolitik, non è difficile impegnarsi per abbassare la tensione.

Dietro la retorica delle parti, non c’è nessun interesse per il ristabilimento della legalità costituzionale a Niamey. I regimi dell’area vogliono solamente rassicurazioni credibili di non essere travolti da colpi di Stato simili a quelli che, negli ultimi anni, hanno rovesciato i governi di Mali, Burkina Faso, Ciad, Sudan e infine Niger. A questo bisognerebbe aggiungere impegni chiari affinché il Sahel non sia lasciato nelle mani dei gruppi criminali di ispirazione jihadista già attivi in quasi tutti i Paesi coinvolti nella crisi. Da parte loro, i golpisti nigerini non vogliono imbarcarsi in conflitti con forse straniere, proprio nel momento in cui il Paese sembra tornare all’antica tradizione di controllo dei militari sulla vita politica, economica e sociale, dopo che Bazoum aveva cercato di seguire un approccio diverso ai problemi interni. Resta da capire se le grandi potenze, nel loro grande gioco globale, abbiano l’interesse o l’intenzione di aggiungere una pedina saheliana nella loro delicata partita per disegnare gli equilibri geopolitici di domani. Il loro silenzio rischia di lasciare la strada spianata alle armi, con conseguenze imprevedibili a livello mondiale.

Quanto ritiene probabile l’intervento dell’Ecowas in Niger?

Le dichiarazioni dei leader della regione e il tempo sembrano condurre dritti alla guerra. Da un lato, i golpisti nigerini, appoggiati dalle giunte militari di Ciad, Burkina Faso e Mali, mostrano intransigenza e rifiutano di reinsediare il presidente deposto; dall’altro lato, i membri attivi dell’Ecowas, spinti da Nigeria, Ghana e Costa d’Avorio, esigono il ripristino dell’ordine costituzionale. Le posizioni sono rigide e nessuno vuole rimetterci la faccia. A Niamey, i militari ribelli rischiano tutto e non possono né vogliono tornare indietro. L’Ecowas non può soltanto limitarsi ad abbaiare all’infinito senza rischiare la sua credibilità e apparire con le spalle al muro, costretta ad accettare il fatto compiuto. Senza contare che molti regimi temono di essere travolti da forze locali ispirate proprio dalla situazione in Niger. Più tempo passa e minori diventano le possibilità di una soluzione diplomatica. Solo se il Niger precipitasse nella spirale della guerra civile e della violenza jihadista gli schieramenti attuali salterebbero, aprendo scenari nuovi e inediti nella regione. Ma, per il momento, la strada dello scontro militare sembra la più probabile.

Cosa potrebbe accadere in questo caso?

Il rischio è un conflitto armato su scala regionale dalle conseguenze imprevedibili. A seguito dell’attacco russo all’Ucraina, si è insinuato un messaggio nuovo che avvelena la vita della comunità degli Stati. E cioè che il ricorso alla forza per risolvere tensioni accumulatesi per troppo tempo o per garantirsi il controllo di risorse e territori non sia più una strada impraticabile. Il primo frutto amaro di tale approccio potrebbe maturare proprio nelle già martoriate terre tra Sahel e Golfo di Guinea. Percorrere questa strada significa però camminare su un campo minato. Lo scontro potrebbe allargarsi, straripando verso l’Africa mediterranea, e coinvolgere in una nuova guerra per procura le grandi potenze interessate alle ricchezze e al carattere strategico della regione. Ma il rischio maggiore è che la fascia di Paesi dalla Mauritania al Sudan si trasformi in un gigantesco buco nero geopolitico. Si tratterebbe del terreno ideale per organizzazioni criminali internazionali, predoni locali, trafficanti di ogni genere e gruppi jihadisti, capaci costituire una minaccia securitaria a livello globale.

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Stefano Piazza