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(Getty Images)
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Il nucleare iraniano è un problema per Biden

I colloqui viennesi procedono nell'incertezza, mentre la Casa Bianca rischia di pagare cara la sua arrendevolezza nei confronti di Teheran

E’ un grande punto interrogativo quello sospeso sui colloqui viennesi dedicati al nucleare iraniano. Ripresi lunedì scorso, non è ancora chiaro quale sarà il loro destino. Da una parte, Iran e Russia si erano recentemente detti ottimisti. “I colloqui di Vienna stanno andando in una buona direzione... Riteniamo che se altre parti continueranno il ciclo di colloqui appena iniziato con buona fede, sarà possibile raggiungere un buon accordo per tutte le parti”, aveva dichiarato il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian. Di “progressi indiscutibili” aveva invece parlato l'inviato russo Mikhail Ulyanov.

Un entusiasmo complessivo che non era tuttavia stato granché condiviso dagli Stati Uniti. “È davvero troppo presto per dire se l'Iran è tornato con un approccio più costruttivo a questo round”, aveva detto a fine dicembre il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Ned Price. “Stiamo valutando, nel corso di questi colloqui, se gli iraniani sono tornati con un'agenda di nuove questioni o soluzioni preliminari a quelle già presentate”, aveva aggiunto.

In questa complicata situazione, è molto interessante uno studio di Anthony Ruggiero della Foundation for Defense of Democracies, apparso lo scorso 31 dicembre su Foreign Policy. La tesi dell’analista è che l’amministrazione Biden si starebbe rendendo conto di un probabile naufragio delle trattative. E starebbe per questo cercando di scaricare la responsabilità su Donald Trump, “colpevole” di essersi ritirato, nel maggio del 2018, dall’accordo sul nucleare con l'Iran, che - ricordiamolo - era stato siglato da Barack Obama. Una spiegazione di comodo che – nota Ruggiero – non regge granché alla prova dei fatti. Secondo lui, “i progressi nucleari più eclatanti di Teheran si sono verificati dopo l'elezione di Biden, non dopo che Trump si è ritirato dall'accordo nel 2018”. In altre parole, è stata l’eccessiva morbidezza dell’attuale presidente statunitense a rendere la Repubblica Islamica più spavalda e pericolosa: una situazione probabilmente aggravatasi dopo l’ascesa al potere di Ebrahim Raisi.

Ai tempi della campagna elettorale, Biden aveva promesso di ripristinare l’accordo sul nucleare, senza specificare in che modo ciò sarebbe concretamente avvenuto. Era chiaro che, più che i criteri della Realpolitik, l’allora candidato dem stesse seguendo delle logiche elettorali, pur di attaccare Trump. E così, una volta entrato in carica, Biden ha dato seguito alla sua distensione con Teheran, ottenendo tuttavia ben poco in cambio. L’elezione di Raisi ha complicato ulteriormente le cose. E adesso la Casa Bianca rischia di ritrovarsi in un vicolo cieco, mentre Israele – nonostante l’uscita di scena di Benjamin Netanyahu a giugno – continua a nutrire significative riserve sui colloqui viennesi.

Biden dovrebbe quindi agire risolutamente e tornare a un approccio duro. Il problema per lui è il rischio di un dilemma di difficile soluzione. Se continua con l’arrendevolezza, l’Iran proseguirà nei suoi pericolosi progetti, rafforzando indirettamente Russia e Cina (che godono di significativi legami con la Repubblica Islamica). Se sceglie di contro la linea dura, l'inquilino della Casa Bianca dovrà ammettere di aver totalmente sbagliato la propria strategia mediorientale finora e sarà costretto a sconfessare una delle sue principali promesse elettorali. La strada per risalire la china è la seconda – ovvero il ritorno alla linea dura. Bisognerà ciononostante vedere se l’attuale presidente americano avrà la forza politica di intraprenderla. Questo è purtroppo ancora tutto da dimostrare.

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Stefano Graziosi