Crisi Dem in America: la colpa è di Obama
Kamala Harris ha sbagliato tutto in campagna elettorale. Ma a tramare per anni c’è stato l’ex presidente: trasparente in pubblico, aspirante «king maker» dietro le quinte. E così ha sfasciato il partito. Che ora non sa ritrovarsi.
La plateale sconfitta elettorale di Kamala Harris non è stata dovuta soltanto ai numerosi errori commessi dalla candidata dem. Le cause strutturali di quella débâcle vengono infatti da lontano. E hanno un responsabile principale: Barack Obama. Nonostante non ricopra incarichi formali nel Partito democratico, è noto che l’ex presidente continua a risultare una delle figure più influenti della sua classe dirigente. Ecco, proprio lui ha contribuito decisamente a creare le condizioni della crisi in cui è piombato l’Asinello.
Per capirlo, dobbiamo però fare un passo indietro. Quando emerse come candidato presidenziale nel 2008, Obama era una figura anti-establishment: sconfisse Hillary Clinton alle primarie dem di quell’anno e il repubblicano John McCain alle presidenziali. Era, in altre parole, un candidato alternativo al sistema e assai vicino ai colletti blu della Rust Belt, la zona del Paese della tradizione industriale, durissimamente colpita dalla crisi. Poi successe qualcosa. Vinta la nomination presidenziale del suo partito, si riappacificò con quel potere contro cui era originariamente sceso in campo. Durante le combattute primarie dem del 2016, diede infatti il suo appoggio alla Clinton, deludendo tutta quella parte di sinistra americana che sosteneva, al contrario, la candidatura antisistema di Bernie Sanders. Non solo. Per l’ex first lady, Obama si mise anche in rotta con il suo vice, Joe Biden, che nel 2015 aveva lasciato intendere di voler competere per la nomination dell’anno successivo. La sconfitta della Clinton non ha intaccato eccessivamente il potere di Obama nel partito. Tanto che è riemerso quattro anni dopo.
Le primarie dem del 2020 sono state affollatissime. E, anziché permettere lo sviluppo di una dialettica interna capace di rinnovare la classe dirigente, Obama è intervenuto nuovamente dall’alto. Come riportato all’epoca da Nbc News, l’ex presidente si è mosso dietro le quinte per spingere i vari candidati a ritirarsi e a sostenere un Biden che aveva esordito malissimo, perdendo per esempio alle primarie del New Hampshire. Il sostegno garantito da Obama a Biden non era dovuto ad amicizia o ad ammirazione: come detto, i due non si amano e, anzi, Biden da vicepresidente è stato spesso tenuto in un angolo dal numero uno della Casa Bianca. No: l’obiettivo è stato quello, ancora una volta, di bloccare l’ascesa elettorale di Sanders. Alla fine Biden si è aggiudicato la nomination e poi la presidenza, assicurando, anche in virtù della sua debole leadership, un’efficace spartizione degli incarichi nella propria amministrazione tra gli alleati di Obama (come Lloyd Austin o Janet Yellen) e quelli della Clinton (come Jake Sullivan).
E qui veniamo al nodo. Non solo l’Asinello ha continuato a restare sotto il tallone di un establishment che ha impedito una dialettica interna. Ma Obama ha fatto male i suoi conti. Il suo schema era quello di trasformare Biden in un presidente di transizione: che avrebbe dovuto rinunciare alla ricandidatura nell’estate del 2023 per essere sostituito da una personalità più forte l’anno successivo. Ed ecco l’imprevisto: Biden, spinto dalla moglie Jill e dal figlio inquisito Hunter, si è all’improvviso rifiutato di ritirarsi dalla corsa per la riconferma. La scelta ha spiazzato e irritato Obama che, pur professando ufficialmente fedeltà all’ex vice, ha chiesto agli esponenti del suo entourage storico, a partire da David Axelrod, a sparare a palle incatenate contro di lui. Biden, senza seri rivali in campo, ha vinto intanto le primarie dem del 2024, sebbene in condizioni psicofisiche sempre più precarie. La svolta è avvenuta nel maggio scorso, quando la direttrice della campagna del presidente, Jen O’Malley Dillon, ha aperto de facto a un dibattito televisivo tra il suo candidato e Donald Trump: una posizione un po’ strana, vista la situazione di salute - soprattutto mentale - di Biden. Sarà un caso, ma la O’Malley Dillon ha alle spalle una storia politica in gran parte legata a Obama.
E così arriviamo al confronto televisivo con Trump del 27 giugno scorso, sulla Cnn. Biden è crollato. E, a quel punto, l’establishment del partito gli si è rivoltato apertamente contro. Il presidente ha provato a resistere ma, dietro le pressioni di Obama e Nancy Pelosi, si è arreso alla fine di luglio. Obama ha raggiunto il suo scopo. Troppo tardi, però. Mancavano appena tre mesi alle elezioni. E gli astri nascenti del Partito democratico - Gavin Newsom, Josh Shapiro e Gretchen Whitmer - non ne hanno voluto sapere di rischiare di immolarsi: meglio aspettare, per loro, il 2028. È rimasta quindi disponibile solo la Harris alla quale Biden, freddamente, ha dato l’endorsement il giorno stesso del proprio passo indietro. Obama sapeva che si trattava di una candidata debole, avrebbe preferito Newsom. Ma, come detto, quest’ultimo e gli altri papabili contendenti si sono tirati indietro. L’ex presidente ha quindi atteso prima di schierarsi. E non sbloccandosi la situazione, malgrado ciò ha dato l’endorsement alla vicepresidente, mettendoci la faccia e intervenendo in una campagna elettorale che, a conti fatti, alla Harris ha fatto più male che bene: basta ricordare quando, a poche settimane dal voto, l’ex presidente ha irritato l’elettorato afroamericano maschile, accusandolo di sessismo per il suo scarso entusiasmo nei confronti della candidata dem. Anche Shapiro e la Whitmer, pur sostenendola ufficialmente, non hanno avuto reale interesse a una vittoria della Harris perché, in un simile scenario, le loro ambizioni presidenziali per il 2028 sarebbero state compromesse.
Obama, in altre parole, è rimasto vittima del meccanismo infernale che ha innescato. Il suo machiavellismo gli si è ritorto contro. Ha impedito un sano confronto interno per rinnovare la classe dirigente dem. Ha sistematicamente sacrificato, negli ultimi dieci anni, l’ala operaia del partito a quella liberal della West Coast. Ha, infine, attuato un golpe interno che ha prodotto un effetto boomerang.
Eh sì, perché, dopo la sconfitta della Harris, sono iniziati a volare gli stracci. Sanders ha accusato il Partito democratico di aver «abbandonato» la working class. Inoltre, vari deputati dem, come Tom Suozzi, hanno riconosciuto che l’estremismo woke ha contribuito a far perdere le elezioni all’Asinello. È chiaro che queste critiche hanno un bersaglio preciso: Obama. L’ex presidente sa bene di essere finito sul banco degli imputati. E per incolpare Biden della débàcle ha quindi mandato avanti uno che gli scriveva i discorsi: Jon Favreau. «La decisione di Joe Biden di candidarsi di nuovo alla presidenza è stato un errore catastrofico», ha tuonato Favreau dopo le elezioni. Si tratta di una tesi che, sposata anche dalla Pelosi, fa acqua e che difficilmente verrà accettata senza batter ciglio dal Partito democratico sia a livello parlamentare sia di base elettorale. Obama vede adesso il suo potere interno vacillare, mentre Newsom, Shapiro e la Whitmer già scaldano i motori per candidarsi alla nomination presidenziale del 2028.
Bisognerà capire se questi leader emergenti accetteranno di diventare pedine dell’attuale establishment dem o se avranno la forza di archiviare definitivamente quei nomi che, a partire da Obama e dalla Clinton, hanno portato il loro partito alla sconfitta. Shapiro e la Whitmer, rispettivamente governatori di Pennsylvania e Michigan, potrebbero essere avvantaggiati, in quanto rappresentanti di quella Rust Belt da cui l’Asinello dovrebbe ripartire. Si tratta quindi di profili che, almeno sulla carta, potrebbero essere capaci di recuperare un dialogo politico con i colletti blu di quell’area. Dal canto suo, Newsom è, sì, governatore di uno Stato liberal come la California, ma è altrettanto vero che, in alcuni casi, ha dimostrato una discreta dose di pragmatismo. Tutti e tre avrebbero quindi le carte in regola per rinnovare il vecchio establishment e, al contempo, far uscire i democratici dall’ubriacatura woke da cui sono rimasti schiacciati. Non è però detto che si riveleranno capaci di gestire efficacemente l’ala più ideologizzata del partito, né che avranno il coraggio di mettersi contro la Clinton e Obama.
Le battaglie della compagine liberal sono sempre più inconciliabili con gli interessi della working class (si pensi solo alle asfittiche politiche verdi). E questo è un enorme problema per il futuro dell’Asinello, visto che, alle ultime elezioni, ha perso in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin: tre Stati che, pur difficoltosamente, Biden era riuscito a riconquistare quattro anni fa. Senza trascurare che, nella progressista California, Trump questo novembre ha guadagnato quattro punti percentuali rispetto al 2020. È un risultato tanto più eclatante visto che la California, oltre che epicentro dell’ideologia woke, è anche lo Stato d’origine della Harris. Insomma, la traversata nel deserto dei dem sarà assai lunga. O riescono a riavvicinare la working class, oppure il loro declino rischia di aggravarsi pericolosamente.