Orban lascia il Ppe. E c'è chi al suo posto vorrebbe la Lega
Grandi cambiamenti negli schieramenti politici a Bruxelles, con inevitabili ripercussioni a livello nazionale
Viktor Orban ha lasciato il Partito popolare europeo. Una scelta che non suona esattamente come inattesa. Negli scorsi giorni, Politico aveva infatti rivelato che lo schieramento del premier ungherese, Fidesz, fosse pronto ad andarsene per non accettare il nuovo regolamento introdotto dai popolari, con l'obiettivo di consentire la sospensione di un intero partito, anziché di singoli eurodeputati.
La formazione di Orban era del resto stata sospesa dall'adesione al Ppe nel marzo del 2019, ma disponeva ancora di undici componenti all'interno del gruppo europarlamentare dei popolari. Una presenza, che aveva infastidito comunque alcuni esponenti del Ppe. Non dobbiamo del resto trascurare che la proposta di modifica dei regolamenti sia stata introdotta dopo che, lo scorso dicembre, proprio un esponente di Fidesz, Tamás Deutsch, aveva duramente criticato il capogruppo popolare, Manfred Weber, paragonando alcune sue affermazioni agli slogan della Gestapo. D'altronde, al di là degli episodi contingenti, le turbolenze tra Fidesz e il Ppe affondano le proprie radici in un problema strutturale: si tratta, in particolare, delle critiche che la Commissione europea ha rivolto, negli scorsi mesi, a Ungheria e Polonia sulla questione del rispetto dello Stato di diritto.
La mossa di Orban chiude quindi una lunga fase di tensione, il cui sbocco era ormai stato da più parti preconizzato. Adesso, lo scenario più probabile è che il leader ungherese raggiunga proprio i polacchi di Diritto e Giustizia all'interno del gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (di cui fa parte anche Fratelli d'Italia). Scenario invece meno chiaro è quello che riguarda la Lega. Dopo l'ingresso nel governo di Mario Draghi, è diventato evidente che il Carroccio stia mirando a una strategia per accreditarsi dal punto di vista internazionale (nel Vecchio Continente e non solo). Una strategia che, in Europa, passa inevitabilmente anche dal tentativo di uscire dall'angolo.
E' del resto in questo senso che, soprattutto nelle scorse settimane, è finito un po' sotto esame il rapporto politico con Marine Le Pen, alleata della Lega all'interno del gruppo Identità e Democrazia. Il tema è quindi capire se il vuoto lasciato da Orban sarà adesso occupato dal Carroccio. Svariati media ed analisti si sono detti convinti, negli ultimi giorni, che ciò accadrà abbastanza rapidamente. Eppure attenzione a dare troppe cose per scontate. Se è indubbiamente vero che il Carroccio voglia rompere il suo parziale isolamento europeo, non è neppure scontato che un (eventuale) ingresso nel Ppe risulterà troppo celere. Si scorge innanzitutto un "nodo teutonico": non è detto che i tedeschi della Cdu sarebbero felicissimi di un subitaneo ingresso del Carroccio.
Non dimentichiamo infatti che la Lega vanti un folto gruppo di europarlamentari: una circostanza che, in caso, ridurrebbe il peso politico dei democristiani teutonici. Tra l'altro, sempre restando in "area Germania", si nota anche un tema di politica interna: le elezioni federali tedesche si terranno il prossimo settembre ed è improbabile che la Cdu voglia allearsi – prima di allora – con un partito attualmente legato all'Afd in seno al gruppo Identità e Democrazia. Una situazione che invece – dopo settembre – potrebbe cambiare radicalmente: cessata l'emergenza elettorale tedesca, il Ppe dovrà porsi prima o poi la questione di come sostituire Fidesz. E, a quel punto, potrebbero essere gli stessi vertici popolari a corteggiare lo schieramento di Matteo Salvini. Ecco perché alla Lega, tutto sommato, non conviene forse di precipitarsi a chiedere l'adesione.
Al di là dei probabili veti teutonici nel breve termine, il partito di via Bellerio – anche qualora riuscisse rapidamente a entrare – rischierebbe di contare ben poco: pur a fronte della numerosa pattuglia, i rapporti di forza interni al Ppe (in termini di alleanze ed influenza) sono attualmente favorevoli infatti alla Cdu. Senza contare che il regolamento "anti-Orban" rischierebbe di tarpare le ali al Carroccio stesso, sottoponendolo a una sorta di neutralizzazione. Uno scenario in cui il partito di Salvini deve evitare di incorrere: se difatti l'abbandono di alcune posizioni visceralmente euroscettiche è stato necessario in vista di una strategia internazionale di ampio respiro, il Carroccio non può tuttavia al contempo accettare di chinare troppo la testa. Dire no all'Italexit non significa rinunciare a pretendere riforme sostanziali in seno all'Unione europea, correggendone limiti, errori e storture: un tema, questo, fondamentale, per la Lega in termini di rapporto con i territori che rappresenta.
La fuoriuscita di Orban apre quindi una fase di cauto avvicinamento. Ma al Carroccio conviene la via della gradualità: rendersi progressivamente indispensabile, per poi – in caso – entrare da una posizione di forza. Perché stare nel Ppe in una posizione di forza significa avere la possibilità reale di cambiare significativamente qualcosa a Bruxelles.