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(Ansa)
Dal Mondo

Palestina, il grande problema non risolto

La Rubrica - Come Eravamo

Da Panorama del 04 aprile 1991

«Siamo come l'araba fenice. Risorgeremo». Con quel sorriso pallido che è diventato il simbolo della tragedia palestinese, Yasser Arafat ripete in questi giorni lo slogan orgoglioso del perdente. Dal fondo del suo bunker di Tunisi, il capo dell'Olp misura l'abisso in cui una guerra combattuta dalla parte sbagliata ha precipitato la sua organizzazione e il popolo che rappresenta.

Una nazione di cinque milioni di persone che da 40 anni lotta, sogna e muore alla ricerca vana di uno Stato. Scelte avventate, dichiarazioni incendiarie, previsioni smentite dai fatti: forse Arafat riuscirà ancora una volta a rinascere dalle proprie ceneri, ma è certo che, prima e durante la disfatta militare di Saddam, ha fatto di tutto per minare la credibilità internazionale della sua causa. Ora cerca un posto al tavolo delle trattative, giocando le carte dell'ambiguità e dell'oblio. Ma suggeriscono gli esperti ad aiutarlo non sarà la memoria corta dei suoi avversari, bensì l'enormità del paradosso storico che non è riuscito a sciogliere. E che la guerra del Golfo ci riconsegna intatto: la questione palestinese rimane l'ostacolo più grave sulla strada del nuovo ordine che Bush e gli altri vincitori vorrebbero imporre al mondo.

"Olp, oil" grida Arafat a chi lo incontra in questi giorni. Uno slogan singolare, inventato sul momento di fronte a centinaia di giornalisti che, qualche settimana fa, in un albergo di Amman, gli chiedevano ragione della disfatta. Due parole brevi, come per dire: fin che ci sarà il petrolio, fino a che l'Occidente avrà interessi in questa regione, ci sarà sempre una Olp a ricordare che i palestinesi devono avere una loro patria, una loro terra, un loro Stato. In questo numero speciale dedicato al labirinto palestinese, Panorama offre ai suoi lettori un ritratto comprensivo dei senzaterra del Medio Oriente: da dove vengono, come vivono, che cosa chiedono, chi li rappresenta, che cultura esprimono, che rapporti intrattengono con i "fratelli" arabi e con i nemici israeliani. E, quali soluzioni si profilano per il loro problema.

Il primo passo per capire è la cronaca della crisi e della guerra del Golfo. Il 2 agosto del 1990, quando le truppe irachene invadono il Kuwait, i palestinesi scoprono improvvisamente in Saddam Hussein il loro avvocato. Oggi si può dire che è stato l'avvocato delle cause perse. Ma allora? La guida politica dei palestinesi, l'Olp, era isolata e immobile. I colloqui di Tunisi con gli americani erano interrotti da due mesi per via di un assurdo attacco di commando palestinesi alle spiagge di Israele. I Paesi arabi del Golfo davano soldi, utili soltanto a mantenere la gigantesca burocrazia dell'Olp, ma non muovevano un dito presso i loro amici occidentali. Gli altri Paesi arabi che contano non erano da meno: la Siria di Hafez Assad metteva addirittura in carcere centinaia di militanti palestinesi, l'Egitto di Hosni Mubarak li teneva alla larga. Poi c'erano le spinte centrifughe, dal basso.

L' intifada, la rivolta popolare, correva il rischio, specialmente nella striscia di Gaza, di essere presa in mano dai fondamentalisti islamici palestinesi di Hamas. Ai sassi si stavano sostituendo i coltelli. I campi profughi di Giordania e Libano ribollivano: dopo il 2 agosto, lì come nei territori occupati, sparivano i ritratti di Arafat e comparivano, sempre più numerosi, quelli di Saddam Hussein. Ecco allora la scelta guerresca, dalla parte sbagliata, del leader dell'Olp. Obbligata o dovuta alla scarsa preveggenza del capo? Lo dirà la storia. Oggi, proprio come l'araba fenice, Arafat può persino presentare un piano di pace con Israele che prevede, anche, la possibilità di concessioni territoriali in Cisgiordania. "Pagliacciate" replica Israele. Ma qualcosa si sta muovendo.

Certo, il ritorno al gioco politico e diplomatico non può cancellare gli abbagli di Yasser Arafat durante la guerra del Golfo. Il rosario degli errori comincia domenica 13 gennaio, il giorno dell'ultimo colloquio, a Baghdad, tra il segretario delle Nazioni Unite, Pérez de Cuéllar, e Saddam Hussein. Due ore decisive: Saddam non cede di un passo. Quelle due ore rendono inevitabile una guerra ormai voluta da Saddam e, a quel punto, dagli Stati Uniti. Ma Arafat, a sera, improvvisa una conferenza stampa nella residenza dell'ambasciatore palestinese a Baghdad. "La porta della pace è aperta" dice. E per tre volte ripete: "Non ci sarà guerra". E' aggrappato all'immagine deformata di un Saddam difensore della causa palestinese. Non sa che, poche ore prima, il presidente dell'Iraq aveva strabiliato Pérez de Cuéllar non citando mai, per due ore, il problema dei palestinesi, non chiedendo nulla per loro.

Il famoso linkage, il legame tra Kuwait e Palestina, non era mai entrato nella testa di Saddam, era un espediente per tirare dalla sua parte i palestinesi. Ma Arafat ci crede, né l'assassinio, a Tunisi, lunedì 14 gennaio, del suo numero due, Abu Iyad, che aveva appena detto, in un'intervista, di non credere al linkage, gli fa cambiare idea. Quando, tre giorni dopo, la guerra comincia, l'Olp chiama "gli arabi e i musulmani a opporsi all'aggressione americana, europea e sionista contro un Paese fratello" e il primo consigliere di Arafat, Bassam Abu Sharif, prevede: "La guerra durerà molto più a lungo di quanto la gente pensi".

Le masse arabe, se si esclude qualche manifestazione nel Maghreb, qualche marcia di studenti in Egitto e il cocciuto silenzio pro - Saddam in Giordania, non si sono mosse in favore di Saddam e la guerra è stata breve. Venerdì 18 gennaio è giorno di festa per i palestinesi: il primo missile iracheno Scud colpisce Israele. Nei territori occupati della Palestina, in pieno coprifuoco, i giovani ballano e cantano di gioia sui tetti delle case. "Saddam, colpisci con le armi chimiche" gridano. In una manifestazione, la prima e l'unica, allo stadio di Amman, uno degli slogan è: "La vittoria sarà per gli arabi. Dio lo ha voluto".

Arafat sposa il fanatismo popolare. "Gli Scud stanno sgonfiando il pallone israeliano" dice. E, ad Amman: "Questi sono giorni gloriosi per la nostra nazione araba, perché siamo testimoni di un' epica e leggendaria determinazione del popolo iracheno sotto il comando del mio fratello Saddam". Non si frena il capo dell' Olp: "La guerra durerà trenta mesi". "Davanti alle stesse armi, nel 1982, a Beirut, io ho tenuto duro tre mesi su nove chilometri quadrati". Più tardi, Arafat arriverà a immaginare un giorno futuro in cui lui e Saddam andranno a pregare insieme alla moschea di Gerusalemme e a sostenere che l'uso del napalm da parte degli americani "offre le ragioni e il diritto, all' esercito iracheno, di usare le armi chimiche".

L'effetto immediato dell'offensiva oratoria del leader dell' Olp è un forte inasprimento, da parte di Israele, del coprifuoco nei territori occupati. Il primo ministro Yitzhak Shamir dice: "La posizione dell' Olp annulla le decisioni adottate due anni fa, ad Algeri, dal Consiglio nazionale palestinese sulla coesistenza di due Stati sul territorio dell' antico Mandato della Palestina". Il ministro degli Esteri David Levy è ancora più drastico: "Arafat si è escluso da solo da qualunque futuro tavolo di trattativa". E il neoministro Rehavam Zeevi, leader del gruppo di estrema destra Moledet (Patria), può affermare: "Due popoli non possono abitare nello stesso Paese. Altrimenti lo spargimento di sangue sarà continuo. Dobbiamo arrivare a una divisione". Persino la sinistra israeliana cambia parere su Arafat. "Per il futuro non ho dubbi che l'Olp debba essere considerata un interlocutore" è il parere di Dedi Zucker, leader del Movimento dei diritti dei cittadini. "Ma il problema è chi andrà a dirigerla. Io mi aspetto che la gente dei territori occupati avrà un peso ben maggiore rispetto alla direzione tradizionale dell'Olp".

La politica troppo apertamente filo - Saddam di Arafat crea malumori nella stessa Olp e getta scompiglio fra i palestinesi. Il primo a parlare chiaro è il sindaco cristiano di Betlemme, Elias Freij. "Dire che tutti i palestinesi sono con Saddam è sbagliato. I palestinesi sono stufi e indignati per il doppio standard adottato dagli Stati Uniti verso l'Iraq e verso Israele. Ma ogni occupazione è illegale. Per quanto riguarda l'Olp, non ha mai perduto l'occasione per perdere un'occasione. Anche in questo caso". Freij sostiene che i palestinesi, anche per le posizioni prese dalla loro guida politica, sono le prime vittime della crisi e della guerra del Golfo.

L' elenco dei danni è lungo: un coprifuoco lungo e duro, le esportazioni di agrumi e olio bloccate, quattro miliardi di dollari dell' Olp custoditi nelle banche del Kuwait rubati dagli iracheni e mai restituiti, 60 milioni di dollari l' anno offerti dai ricchi Stati del Golfo congelati così come i 250 assicurati dall' Opec, le rimesse dei 700 mila palestinesi che lavoravano in Kuwait e nel Golfo scomparse, con una perdita totale di 15 miliardi di dollari. Non è ancora la bancarotta perché l'Olp ha investito nel mondo, da Wall Street alle filiali della Arab Bank, 18 miliardi di dollari, ma per la vita dei quasi due milioni di palestinesi dei territori il colpo è stato duro. I leader dell'Olp si accorgono di quanto l' interesse per la Palestina sia strumentale alla vigilia della battaglia di terra. Nel piano di pace confusamente concordato in extremis tra Mosca e il ministro degli Esteri iracheno, Tareq Aziz, scompare il linkage. Saddam non pone più, tra le condizioni del ritiro, la soluzione del problema della Palestina, e il 26 febbraio, nel discorso radiofonico della sconfitta, infila una frase che è una pietra tombale: "La questione palestinese, per ora, può aspettare". Il giorno dopo, nei campi palestinesi, a mezza voce qualcuno comincia a dire: "Ci siamo messi con i perdenti". O anche: "Nei decenni ci hanno tradito tutti: americani, europei, le Nazioni Unite, governi arabi. Ora ci ha tradito anche l'Olp". Per Arafat, bloccato a Tunisi, incapace di prendere decisioni, sembra giunto il giorno della disfatta. Ma, come dice lui, l'Olp è come l' araba fenice. L

' occasione per il ritorno in gioco è la visita del segretario di Stato americano, James Baker, a Gerusalemme, martedì 12 marzo. Baker vuole incontrare dieci personaggi palestinesi eminenti dei territori occupati. A Tunisi, Arafat vince l' opposizione dei duri dell'Olp, George Habbash, capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, e Nayef Hawatmeh, leader del Fronte democratico per la liberazione della Palestina, che si opponevano a un incontro con la delegazione americana, e dà le sue indicazioni per la composizione della delegazione palestinese, guidata da un moderato di grande nome, Faisal Husseini, direttore del Centro studi arabi di Gerusalemme est. Husseini e i nove saggi fanno capire a Baker che tutto si può discutere, ma che trattare senza l'Olp non è proprio possibile. Il giorno dopo, Bassam Abu Sharif, il consigliere di Arafat, intervistato dalla tv londinese Sky News, annuncia che l'Olp ha "nuove idee" e che i confini del futuro Stato palestinese "sono negoziabili". Sul momento viene smentito da Tunisi, ma si capisce benissimo che dietro il giallo c'è la mano di Arafat che, smessi i panni guerreschi, è tornato a fare il suo vecchio mestiere: il diplomatico.

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Corrado Incerti