«Quella fragile tregua in Nagorno-Karabakh che Erdogan vuole silurare»
L'ambasciatore armeno Sargis Ghazaryanspiega che cosa sta succedendo nella regione caucasica dopo il cessate-il-fuoco concordato la scorsa notte a Mosca. E accusa la Turchia, esclusa dalle trattative: «È l'attore destabilizzante della regione, che sta esportando terroristi jihadisti da Siria e Libia in Azerbaigian».
Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov annuncia il 10 ottobre 2020 la tregua in Nagorno Karabakh (Ansa).
«È tregua, seppur fragile, ma è tregua». Tira un mezzo sospiro di sollievo l'ambasciatore Sargis Ghazaryan. Dopo 11 ore di trattative a Mosca tra i rappresentanti di Armenia e Azerbaigian, alle due di sabato 10 ottobre il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha annunciato un cessate il fuoco umanitario in Nagorno-Karabakh. Eppure, nella regione autonoma contesa fra armeni e azeri, (anche se già Erodoto nel quinto secolo avanti Cristo) raccontava della popolazione armena), sono continuati gli scontri. Panorama cerca di capire gli sviluppi del preoccupante conflitto, riesploso lo scorso 27 settembre, dando voce a una delle parti in causa: l'ex capo missione della Repubblica d'Armenia in Italia.
Ambasciatore Ghazaryan, che cosa sta succedendo in Nagorno-Karabakh?
«Dieci minuti prima dell'entrata in vigore del regime di tregua umanitaria, le forze aeree azere hanno colpito due villaggi in Armenia, uccidendo due civili. Ha poi ripreso il lancio di missili 10 minuti dopo le 12.00 locali, l'ora dell'entrata in vigore della cessazione delle attività belliche».
Subito dopo, l'Azerbaigian vi ha accusato di aver lanciato un attacco contro i distretti di Tartar e Agdam.
«La parte armena non è interessata alla violazione del regime di tregua perché si era già allineata alla posizione della comunità internazionale che il 3 ottobre chiedevano alla parti di cessare il fuoco. L'Azerbaigian e la Turchia avevano rifiutato tale richiesta definendola inaccettabile. Noi armeni abbiamo subito un'aggressione su larga scala e desideriamo che si metta fine al disastro umanitario in corso. Ad ogni modo, noi siamo abituati alle violazioni del regime di tregua da parte azera. Questa è stata la storia del conflitto dalla sua esplosione nel 1991 a oggi. Comunque noi rimaniamo vigili e ci schieriamo in maniera attiva e fattiva affinché il negoziato abbia successo. Ma perché ciò avvenga, anche l'Azerbaigian deve avere la stessa determinazione che noi abbiamo espresso più volte negli ultimi 13 giorni sulla necessità di escludere lo strumento militare come risoluzione del conflitto».
E invece che cosa fa l'Azerbaigian?
«In queste due settimane di combattimenti, il governo azero, supportato dal governo turco, ha commesso crimini contro l'umanità. È nostra intenzione di cittadini armeni, non parlo in termini ufficiali, di portare questi crimini all'attenzione dei tribunali internazionali. Più volte è stato violato il diritto umanitario e la convenzione di Ginevra. Ad esempio con l'uso di bombe a grappolo, che costituisce un crimine di guerra, e droni kamikaze contro la popolazione civile. Infine, l' ».
Ma perché sono ripresi gli scontri durante il cessate il fuoco?
«Baku ufficialmente dichiara che, siccome non erano stati chiariti i meccanismi del regime di tregua concordato stanotte a Mosca, non riconosce come valida la dichiarazione trilaterale sul cessate-il-fuoco umanitario. Peccato che Baku stessa l'abbia firmata stanotte, dopo 11 ore di serrati negoziati con l'Armenia, mediati dalla Russia. Tutto questo significa che la Turchia non è felice di quel documento e che sta pressando l'Azerbaigian a continuare le operazioni militari. Perché Ankara, secondo l'accordo di stanotte, non è stata inclusa nel tavolo delle trattative, che riafferma il formato negoziale composto da Russia, Francia e Stati Uniti».
Già, Ankara. Qual è la sua agenda?
«La Turchia è l'attore destabilizzante delle regione, che sta esportando terroristi jihadisti dalla Siria e dalla Libia in Azerbaigian in funzione anti-armena e partecipa con consiglieri militari e aeronautica militare agli attacchi contro il Nagorno Karabakh e l'Armenia. Se c'è una speranza di raggiungere un accordo di pace, Ankara non può participare come mediatore, essendo militarmente coinvolta nel conflitto».
Un'accusa pesante. È supportata da prove?
«Sì. Non lo denunciamo solo noi armeni, che abbiamo raccolto sul campo di battaglia prove incontrovertibili. A sostenere la presenza di jihadisti in Azerbaigian da più di 10 giorni ci sono anche Parigi, Mosca e Washington».
E a cosa mira Erdogan con la destabilizzazione del Caucaso?
«La Turchia mira a rimettere in discussione gli equilibri macro-regionali emersi dopo il trattato di Losanna del 1923, tuttora valido, sullo spazio geografico dell'ex Impero ottomano. Per far questo, sta allargando la sfera di instabilità geopolitica nel suo vicinato. Lo ha già fatto in Siria, Irak, Libia e nel Mediterraneo orientale con la Grecia e Cipro. Ora lo fa in Caucaso. E domani potrebbe farlo nei Balcani».
Che cosa significa per un armeno vedere la Turchia sostenere i propri nemici?
«A 105 anni dal genocidio armeno, la Turchia non soltanto non lo condanna, ma non lo riconosce, negandolo, e promuove una politica globale di negazionismo, che minaccia di ritorsioni quei Paesi e quelle organizzazioni che riconoscono l'atto genocidario. Vedere questa Turchia dietro l'aggressione militare contro il Nagorno-Karabakh diventa per noi una minaccia esistenziale. E per questo stiamo reagendo».
Intende dire che è una questione di sopravvivenza?
«Assolutamente sì. Nelle trincee in Nagorno-Karabakh, insieme all'Esercito di Difesa, c'è tutta la popolazione, inclusi parlamentari, politici, giornalisti, medici... L'aggressione turco-azera è una cosa medioevale, talmente anacronistica che quando la raccontiamo ai nostri amici in Italia, questi stentano a crederla».
Ma lei pensa che sia a rischio l'esistenza del popolo armeno?
«Lo scorso luglio, in Parlamento ad Ankara, Recep Tayyip Erdoğan ha sostanzialmente dichiarato che con i fratelli azeri avevano intenzione di portare a termine nel Caucaso orientale il lavoro lasciato a metà dai loro padri ottomani».
Incredibile.
«Mutatis mutandis, pensi se 105 anni dopo la Shoah la Germania continuasse a negarla e promuovesse una politica di Stato negazionista e poi aggredisse Israele con l'aiuto di guerriglieri jihadisti dell'Isis e di Al Qaeda».
Da brividi...
«Centocinque anni fa l'Occidente non è stato abbastanza determinato nel fermare il genocidio. Perché c'era in corso la Prima guerra mondiale. Oggi non c'è più un simile contesto che possa fungere da scusante. Non vorrei che fra 10, 20 anni noi in Europa tornassimo a pensare che avremmo potuto fermare un disastro umanitario nel 2020 durante il Covid, quando il Papa e il Segretario generale delle Nazioni Unite chiedono una generale e universale tregua».
Ma ora non vi sentite abbandonati dalla comunità internazionale come 105 anni fa?
«A differenza che nel 1915, abbiamo uno Stato, delle istituzioni democratiche, un esercito efficiente e un corpo diplomatico. Siamo una nazione di sopravvissuti e come tale prevarremo. E se ad Ankara o a Baku si illudono di poter concludere il lavoro lasciato a metà dai loro padri, rimarranno delusi. Le trincee armene in Nagorno Karabakh sono le trincee della lotta al terrorismo jihadista. Vi è un filo rosso che lega il massacro di Bataclan con l'aggressione azera supportata dai jihadisti».
E sul fronte internazionale?
«Dalla comunità internazionale si sono levate voci importanti, audaci, parole chiare di verità. Penso al presidente francese Emmanuel Macron, alla Russia e agli Stati Uniti, alle Nazioni Unite, all'Unione europea e al Consiglio d'Europa. Persino la Lega araba ha condannato l'operato turco».
Quindi non vi stiamo abbandonando come vi abbiamo abbandonato 105 anni fa?
«Diciamo che abbiamo bisogno di prese di posizione più nette. L'ambiguità costruttiva, ossia l'equidistanza, non è sufficiente perché incoraggia l'aggressore. Tra l'altro, mentre gli azeri hanno colpito con missili per due volte la cattedrale cristiana di Shushi, nella stessa cittadina l'edificio meglio conservato e più finemente ristrutturato, con fondi armeni, è la locale moschea sciita. Quell'edificio rimarrà lì, intatto, ancora per tanti secoli. Perché noi, a differenza dei nostri avversari, non permetteremo che questa diventi una guerra di religione».
A proposito di religione: vi aspettate un intervento del Papa a favore della popolazione civile?
«Lo ha già fatto. Il giorno dopo l'inizio delle ostilità, Papa Francesco ha rivolto un appello per la pace fra i popoli del Caucaso. Lo sguardo di noi armeni, che siamo la prima nazione ad aver adottato il Cristianesimo come religione di Stato nel 301 dopo Cristo, è rivolto verso il Vaticano. Quella del Pontefice è la più autorevole voce di soft power del pianeta. E so che segue con attenzione l'evolversi del conflitto. D'altro canto, già nell'aprile 2015 condannando il genocidio armeno ha chiesto alla Turchia di fare i conti con la propria storia».