Ebrahim Raisi, molto più che il Presidente dell'Iran
Ritratto del Presidente Iraniano che spaventa il mondo
Ebrahim Raisi il 18 giugno 2021 è diventato il nuovo presidente della Repubblica islamica. Con il suo turbante nero simbolo della discendenza dal Profeta, la tunica beige, la barba ben curata, lo sguardo tagliente ma pacato, ha ottenuto la vittoria con la più bassa affluenza in quarant’anni, il 48%. Un trionfo pilotato dal regime e dalla guida suprema Ali Khamenei con l’obiettivo di rinegoziare con la massima rigidità il Trattato sul nucleare e rafforzare l’indipendenza dell’economia.
La sua ascesa interna è stata frutto di una fitta rete di relazioni. Il suo potere è legato al ruolo di custode del santuario dell’imam Reza a Mashhad. Ma Raisi è anche sposato con Jamileh Alamolhoda, la figlia dell’imam della «preghiera del venerdì» di Mashhad. La sua carica di custode è importante perché implica la gestione di un bonyad, gli enti di beneficenza che controllano circa il 20 per cento del Pil. Raisi è un personaggio controverso. Per decenni ha lavorato come pubblico ministero, e per due anni è stato capo della magistratura. Il punto più basso nella sua carriera è stato il ruolo nell’esecuzione sommaria di migliaia di prigionieri politici e membri di gruppi armati di sinistra alla fine degli anni Ottanta.
«Per identificare le forze che hanno proiettato Raisi alla presidenza bisogna guardare alla composizione del suo esecutivo» spiega Ali Alfoneh, analista dell’Arab Gulf States Institute di Washington a Panorama. «Il 37% dei ministri sono veterani dei Pasdaran, che oltre a essere un’organizzazione militare è uno dei maggiori attori economici in Iran. Il 21% dei ministri sono ex dirigenti dell’Organizzazione di beneficenza del santuario dell’Imam Reza, l’equivalente dello Stato del Vaticano, che Raisi ha amministrato dal 2016 al 2019».
Nella campagna elettorale Raisi non solo si è presentato come un tecnocrate, ma ha promesso di combattere la violenza interna, la corruzione e di ridimensionare l’odiatissima polizia morale. Ha quindi conquistato il potere in un’elezione pianificata. Il Consiglio dei Guardiani ha escluso dalla competizione non solo i riformisti e l’ultraconservatore e populista Mahmud Ahmadinejad, ma anche Ali Larijani, ex presidente del parlamento e negoziatore capo sul nucleare.
«L’opposizione al presidente Raisi è disorganizzata» conferma Alfoneh. «Le élite guidate da Rohani sono indebolite. Il campo riformista capeggiato dall’ex presidente Mohammad Khatami esiste a malapena. Questo lascia le proteste di strada senza leader». Come se non bastasse, l’Iran è piegato dalla morsa delle sanzioni statunitensi e dalla pandemia. L’economia ha avuto una contrazione del 7 per cento nel 2019. Il rial, la moneta nazionale, ha perso l’85 per cento del suo valore dal 2017 e l’inflazione è salita al 45.
Iman, 38 anni, single, interior designer racconta: «I prezzi aumentano ogni giorno. L’idea di avere una famiglia è ormai un sogno, la situazione è peggiorata con l’elezione di Raisi». A minacciare la stabilità del Paese anche le proteste a Isfahan, la più bella delle città iraniane, con la sua stupefacente Moschea dello Shah’. Qui migliaia di persone hanno marciato per chiedere che venga restituito il bene più prezioso, l’acqua, ci sono stati diversi feriti negli scontri. Un segnale di ulteriore tensione.
Anche le relazioni economiche con l’Italia sono state danneggiate. Il nostro export si è ridotto a un terzo. Le banche e le imprese hanno paura di ritorsioni di Washington e così hanno pensato a triangolazioni con società in Turchia o a Dubai. Teheran in risposta ha spinto verso il protezionismo. I negoziati sul nucleare potrebbero comportare una svolta. La Repubblica islamica però si è rifiutata di parlare con i funzionari americani. Ha negoziato invece con europei, russi e cinesi.
Le alleanze stanno cambiando. E cruciale è stato il recente incontro, a Mosca, tra il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov e il suo omologo iraniano Hossein Amir-Abdollahian, da poco insediatosi. In questo tumulto il Paese avrà presto bisogno di un nuovo leader supremo. Sulla salute di Ali Khamenei, ora 82enne, si sa solo che è stato sottoposto a un intervento alla prostata. Sono state più volte smentite voci sul suo aggravamento, ma nelle ultime apparizioni sembra affaticato, stanco.
«Gli analisti iraniani non avevano previsto che Khamenei succedesse a Khomeini nel 1989» dice Alfoneh. «Tuttavia, Raisi sembra avere la benedizione di diverse istituzioni chiave: Khamenei appunto, i Pasdaran e la bonyad di Mashhad». Zahra, casalinga, 68 anni, è rassegnata: «In Iran tutti sono interessati solo alle rendite di un particolare gruppo, non al benessere del popolo».
La partita per Raisi, però, ora si gioca soprattutto all’estero. È facile che il presidente persegua alleanze con la Russia, appunto (Vladimir Putin gli ha rivolto, tra i primi, le congratulazioni per l’elezione che porterà a «una nostra costruttiva cooperazione» ha detto), ma soprattutto con la Cina: Teheran ha firmato di recente una partnership di 25 anni con Pechino per la Nuova via della seta. La potenza asiatica investirà 400 miliardi di dollari nell’economia iraniana in cambio di una fornitura scontata di petrolio.
Celebre lo scatto dell’agosto scorso, che ritrae i due ministri degli Esteri Wang Yi e l’allora in carica Mohammad Javad Zarif, dopo la firma dell’intesa. Entrambi soddisfatti per aver siglato un accordo che cambierà gli equilibri globali. Per l’Iran resta comunque cruciale il Medio Oriente. Qui rafforzerà «l’asse della resistenza», la rete tentacolare di suoi alleati in Iraq, Libano, Siria, Yemen per far pressione sugli Stati Uniti. Teheran e Washington potrebbero finire davvero in rotta di collisione. Ma non è detta l’ultima parola. Il portavoce americano ha chiarito: «Stiamo dando un’altra possibilità perché è nel nostro interesse».