La crisi del Commonwealth britannico
(Ansa)
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La crisi del Commonwealth britannico

Dopo il ritiro della maggior parte degli Stati membri ora arrivano le richieste di riparazione per i crimini del colonialismo. L'ultimo rimasuglio dell'Impero britannico rischia di implodere.

«Londra vive nel passato, e in questo modo perde il presente e boicotta il proprio futuro» dice un vecchio nostalgico della politica britannica, mentre osserva Re Carlo dirigersi a Samoa, la nazione insulare del Pacifico appartenente al Commonwealth, ultima tappa del sovrano per riaffermare l’amicizia e indirettamente la guida della corona inglese sui 56 Stati indipendenti che attualmente ne fanno parte.

Già, perché nel cosiddetto Commonwealth delle Nazioni – che sabato 26 ottobre concluderà i lavori iniziati il 21 del mese – di quei 56 Stati ve ne sono 15 che riconoscono formalmente il re d’Inghilterra come il proprio capo di Stato (all’interno del cosiddetto Reame del Commonwealth), di cui 13 ex colonie britanniche. Ma fino a quando lo riconosceranno? È questa la domanda cui il Regno Unito deve dare risposta, specie dopo che trapelano notizie secondo cui da tempo i capi di governo del Commonwealth si stanno preparando a sfidare apertamente il Regno Unito per mettere in discussione la leadership britannica.

Come? Concordando un piano per esaminare la «giustizia riparatoria», in ragione della tratta transatlantica degli schiavi di epoca coloniale. Un fatto – con annesse reiterate polemiche – che ormai si ripete a ogni visita di un re d’Inghilterra in uno dei Paesi membri e che è potenzialmente esplosivo, perché potrebbe lasciare il Regno Unito in debito per miliardi di sterline in risarcimenti: un rapporto del 2023 redatto dall’Università delle Indie Occidentali (e sostenuto dal giudice Patrick Robinson, che fa parte della Corte internazionale di giustizia), stima che il Regno Unito possa dover risarcire più di 18 miliardi di sterline per il suo ruolo nella schiavitù solo a riguardo di 14 Paesi caraibici.

Downing Street insiste che la questione non è all’ordine del giorno del vertice dei 56 Paesi del Commonwealth, che venerdì 25 vedrà la plenaria, ma in queste ore circola già una bozza del comunicato del vertice, resa nota dalla Bbc, che recita: «I capi di governo, prendendo atto degli appelli a discutere di giustizia riparatoria in relazione alla tratta transatlantica degli africani schiavizzati e alla riduzione in schiavitù... hanno convenuto che è giunto il momento di una conversazione significativa, veritiera e rispettosa per forgiare un futuro comune basato sull'equità».

Dietro a ciò, si nasconde la velata minaccia di uscire dal Commonwealth stesso da parte di molti Paesi aderenti, se non saranno soddisfatte le richieste. La questione è delicatissima: da quando Londra ha perso l’Impero, infatti, le tendenze al distaccarsi da Londra non sono mai mancate, anche se sostanzialmente l’istituto erede dell’Impero britannico sinora ha tenuto. Il Sudafrica ne fu espulso nel 1961, a causa del regime di apartheid, per poi essere riammesso nel 1994; il Pakistan uscì nel 1972 per protesta contro il riconoscimento del Commonwealth alla separazione del Bangladesh, per poi rientrare nel 1989. Due ex membri che invece sono usciti dall’organizzazione e mai più rientrati sono l’Irlanda nel 1949, dopo essere diventata una repubblica e lo Zimbabwe nel 2003, in segno di protesta contro il Commonwealth che lo aveva sospeso a causa delle violazioni di diritti umani.

Carlo III, come prima di lui la madre Elisabetta II, ha la diretta responsabilità della guida del Commonwealth, un ruolo che corre parallelo a quello di sovrano e di cui Carlo è stato investito da Elisabetta stessa nel 2018, in continuità con un’istituzione avviata dal padre Giorgio VI nel 1949 (oltre ai 15 Reami del Commonwealth, altri 6 Paesi membri hanno invece un proprio monarca: Brunei, Lesotho, Malesia, Samoa, Eswatini e Tonga).

In ragione di ciò, e motivato anche da forti convinzioni personali, il nuovo re britannico farà verosimilmente tesoro delle richieste di «giustizia riparatoria per la schiavitù» dei sudditi di Sua maestà: riparazioni finanziarie, riduzione del debito, scuse ufficiali, programmi educativi, costruzione di musei, sostegno economico e assistenza sanitaria pubblica sono le principali vie studiate da Buckingham Palace per andare, per quanto possibile, incontro a un gruppo di Paesi sempre più irrequieto e attirato dalle sirene orientali (vedi il vertice Brics dei Paesi che si oppongono apertamente all’Occidente).

Così, il testo che sarà discusso durante l’assemblea del Commonwealth è stato elaborato dai rispettivi diplomatici ben prima del vertice, con i funzionari britannici che sono riusciti a bloccare un piano per una dichiarazione completamente separata sull’argomento spinoso dei risarcimenti.

«Il Regno Unito non voleva che nel comunicato si parlasse di giustizia riparatoria, ma al momento ha dovuto accettare che il documento includesse tre paragrafi completi che illustrano la posizione dettagliata del Commonwealth», scrive la Bbc. Londra punta infatti a rimandare la questione della giustizia riparatoria al prossimo vertice del Commonwealth che si terrà tra due anni nei Caraibi, probabilmente ad Antigua e Barbuda.

Aprire oggi a riparazioni per un valore di trilioni di sterline, come richiesto, per il ruolo storico avuto dai britannici nella tratta degli schiavi, getterebbe l’economia del Paese nel caos, dopo che già il Regno Unito non gode di stabilità (neanche politica) dal post Brexit, e anche il nuovo premier laburista, Sir Keir Starmer, viene ferocemente criticato in patria, con il suo consenso già in picchiata in attesa della nuova manovra finanziaria lacrime e sangue che sarà annunciata il 30 ottobre, subito dopo il vertice del Commonwealth, e che impone al premier di non acconsentire a nessuna richiesta di denaro proveniente dall’estero, per non esporre e indebitare ulteriormente il Paese.

Starmer è atterrato a Samoa nella tarda serata di mercoledì, diventando il primo premier in carica a visitare una nazione insulare del Pacifico. Ovviamente, in ragione di quanto detto, anche lui ha glissato sul tema «riparazioni», puntando semmai a discutere con il leader del Commonwealth circa «le sfide attuali, in particolare il cambiamento climatico, piuttosto che le questioni del passato». Anche perché a suo dire «ciò che interessa loro di più è se possiamo aiutarli a lavorare, ad esempio, con le istituzioni finanziarie internazionali sui pacchetti di cui hanno bisogno in questo momento […]. È su questo che mi concentrerò, piuttosto che su quelle che finiranno per essere lunghissime e interminabili discussioni sulle riparazioni del passato».

Dunque, al vertice del Commonwealth il copione non dovrebbe prevedere nessuna sorpresa, ma soltanto dichiarazioni d’intenti e scuse di maniera sulla schiavitù, sulla scia di quanto Re Carlo già espresse lo scorso anno in occasione di una visita in Kenya, quando il re parlò di «grande dolore e rammarico» per le «malefatte» dell’era coloniale, e niente più.

Ma i Paesi caraibici sono i più determinati a insistere sulla questione, e stanno facendo pressione diplomatica presso l’intero istituto. Intanto, i candidati che concorrono a ottenere la carica di prossimo segretario generale del Commonwealth provengono tutti dall’Africa: Shirley Botchwey dal Ghana, Joshua Setipa dal Lesotho e Mamadou Tangara dal Gambia. Tutti hanno dichiarato di sostenere la giustizia riparatoria, ma ci tengono di più a non scontentare Londra per ottenere un ruolo apicale nell’istituzione di derivazione imperiale più prestigiosa al mondo.

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Luciano Tirinnanzi