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(Ansa)
Dal Mondo

I limiti della strategia di Biden con la Cina

Il presidente americano ha assicurato una linea dura nei confronti di Pechino. Ma si scorgono dei paradossi

E' opinione abbastanza diffusa – oltre che mediaticamente enfatizzata – che la presidenza di Joe Biden stia coltivando un approccio coerentemente duro contro la Cina. E, in effetti, a prima vista le cose sembrerebbero stare effettivamente così. Tutti ricordiamo la prima telefonata con il presidente Xi Jinping, in cui il neo inquilino della Casa Bianca è andato all'attacco di Pechino sul fronte dei diritti umani e dello spinoso dossier taiwanese. Una linea dura, ripresa recentemente anche dal segretario di Stato americano, Tony Blinken, che, in riferimento allo Xinjiang, ha parlato di "genocidio" degli uiguri. Senza poi trascurare i tesissimi colloqui sino-americani di Anchorage. Se queste energiche prese di posizione risultano indubbiamente oggettive, è tuttavia necessario domandarsi quanto – in concreto – la strategia della Casa Bianca si stia rivelando efficace contro Pechino. Perché, a ben vedere, si scorgono alcuni nodi problematici.

Cominciamo dall'Organizzazione mondiale della sanità. Quando l'anno scorso decise di ritirare gli Stati Uniti da quel consesso, Donald Trump sostenne che, alla base della sua scelta, vi fosse l'eccessiva influenza politica dal Dragone in seno a quel consesso. Non solo del resto l'Oms si era rivelata piuttosto morbida con Pechino durante le prime fasi della pandemia. Ma, a ben vedere, si trattava di un problema antecedente allo scoppio del Covid-19. Che la presa politica della Cina sull'Oms fosse crescente era d'altronde già diventato chiaro nel 2017, quando Tedros Adhanom Ghebreyesus era divenuto – grazie soprattutto al fondamentale appoggio di Pechino – suo direttore generale. Tutto questo, a testimonianza del fatto che, al di là di come la si potesse pensare sulla mossa specifica di Trump, le ragioni per preoccuparsi dell'influenza cinese sull'Oms fossero concrete. Ragioni che, in campagna elettorale, Biden di fatto si rifiutò di discutere, limitandosi ad attaccare la scelta dell'allora presidente. E non a caso, appena insediatosi alla Casa Bianca lo scorso gennaio, Biden ha bloccato il processo per il ritiro degli Stati Uniti dall'organizzazione.

Sia chiaro: era un suo diritto agire in questo modo e si trattava del resto di una sua promessa elettorale. Viene tuttavia da chiedersi se la misura non sia stata adottata con una fretta eccessiva. Una fretta che non ha permesso alla nuova amministrazione di valutare con serenità se il tema delle influenze cinesi fosse prima affrontabile e risolvibile. E infatti il nodo alla fine è venuto al pettine, con lo stesso Blinken che, a fine marzo, ha espresso preoccupazioni sul fatto che il rapporto sul Covid-19 potesse essere stato scritto con il contributo dello stesso governo cinese. Il che rafforza la domanda: perché il rientro nell'Oms è avvenuto tanto celermente e prima di capire se le influenze di Pechino potessero essere arginate?

Un discorso in parte analogo vale per l'Organizzazione mondiale del commercio. Trump aveva più volte polemizzato con questo organismo, accusandolo di riservare un trattamento di favore a Pechino. In questo senso, l'allora presidente aveva bloccato la nomina a direttore generale dell'ex ministro delle Finanze della Nigeria, Ngozi Okonjo-Iweala: candidata sostenuta, tra gli altri, proprio dalla Cina. Un veto che tuttavia l'amministrazione Biden, poco dopo essere entrata in carica, ha deciso di rimuovere. Del resto, anche la scelta di rientrare immediatamente negli accordi di Parigi sul clima manifesta, da parte della Casa Bianca, un atteggiamento non poi così duro nei confronti della Cina. Ricordiamo che quegli accordi siano infatti sempre stati fortemente sostenuti da Pechino, che li considera in linea con i propri interessi economici e geopolitici. Accordi rispetto a cui sono state da più parti avanzate delle perplessità, rispetto all'effettiva trasparenza dei dati forniti dal Dragone sulle emissioni. Si potrebbe obiettare che il rientro degli Stati Uniti in questi consessi multilaterali sia finalizzato proprio ad arginare l'influenza cinese. Un'influenza tuttavia che non ha fatto che accrescersi nel corso dell'ultimo decennio (anche grazie a una politica di espansione economica della Cina in Africa). E non è chiaro in che modo ora Washington abbia intenzione di invertire il trend.

Al di là dei singoli fronti legati al multilateralismo, si scorgono tuttavia problemi anche in rapporto alla strategia complessiva messa in campo da Biden. Ricordiamo che il neo presidente abbia ripetutamente dichiarato di voler condurre una politica estera basata sui diritti umani. E da questa premessa dovrebbe quindi principalmente discendere la sua linea sulla Cina. Eppure si notano alcuni fattori problematici. Innanzitutto la Casa Bianca sta tenendo una postura molto più aggressiva verso Mosca che verso Pechino. Il che mette in luce due paradossi.

Il primo riguarda la coerenza: un elemento fondamentale per una politica estera credibile. Se si dichiara di voler condurre una politica estera di natura valoriale, a un approccio duro verso la Russia dovrebbe corrispondere un approccio ancora più duro nei confronti della Cina. Una circostanza, questa, che non si sta tuttavia verificando. Si potrebbe ribattere che si tratta di due dossier differenti, che richiedono approcci diversi: un'obiezione più che sensata, ma che cozza tuttavia con l'idea di una politica estera basata esclusivamente sui diritti umani. Non si può invocare il realismo a fasi alterne. Perché è un rischio di credibilità internazionale quello che si corre.

Il secondo paradosso si registra invece in un'ottica eminentemente realista. Un approccio tanto duro, come è quello di Biden, contro Mosca rischia di spingere sempre più la Russia tra le braccia della Cina. E rischia quindi di rafforzare indirettamente Pechino. Tra l'altro questo tipo di strategia mette tra parentesi il fatto – non poco rilevante – di un establishment, quello russo, che non è graniticamente compatto a favore del Dragone. Anche perché, al di là delle convergenze, tra Mosca e Pechino si registrano vari fronti di concorrenza (dall'Artico alla diplomazia vaccinale). E attenzione: perché una Russia subordinata alla Cina implica anche un'Europa occidentale più vulnerabile agli interessi del Dragone (soprattutto sul piano economico-commerciale).

In tutto questo, non dobbiamo infine trascurare le dinamiche interne americane. Biden ha invocato una politica estera basata sui diritti umani in campagna elettorale (anche) per raccogliere i consensi di alcuni settori della sinistra democratica. Il punto è che questo elemento rischia adesso di ritorcerglisi contro proprio nella sua linea sulla Cina. A livello generale, uno degli aspetti più intelligenti dell'attuale strategia americana nei confronti del Dragone risiede nell'aver fatto sempre più leva sul Quadrilateral Security Dialogue: Washington sta in altre parole sempre più coinvolgendo Giappone, Australia e India in una prospettiva di contenimento della Cina nell'Indo-pacifico. Va da sé che, in questo gruppo di Stati, la Casa Bianca abbia intenzione di puntare soprattutto sull'India (dove si è non a caso recentemente recato il capo del Pentagono, Lloyd Austin, in visita ufficiale). Eppure Biden sta rischiando delle tensioni interne, perché il premier indiano, Narendra Modi, è inviso a una parte della stessa sinistra dem, che lo considera un leader autoritario e in definitiva non in linea con gli standard democratici occidentali. In tal senso ha fatto del resto sentire recentemente la propria voce il senatore dem Bob Menendez. Insomma, uno dei principali alleati di Biden nella sua strategia indo-pacifica nei confronti della Cina è finito sotto attacco da una parte del suo stesso partito, perché non abbastanza in linea con la politica estera di stampo valoriale promessa dall'attuale presidente in campagna elettorale.

Nonostante una retorica roboante ed alcune mosse indubbiamente energiche, alla prova dei fatti, l'attuale linea americana sulla Cina presenta alcuni aspetti non poco problematici. Il rischio è che sia in atto una sorta di riedizione della strategia di Bill Clinton il quale, con Pechino, invocava approccio duro sui diritti umani e, al contempo, maggiore coinvolgimento negli organismi internazionali. Una strategia che, secondo l'allora presidente americano, avrebbe dovuto portare la Cina ad un'evoluzione interna in senso liberale: auspicio poi non verificatosi (come mostrano oggi i drammatici casi di Hong Kong e dello Xinjiang). Sotto questo aspetto, sarà interessante capire quale sarà il destino dei dazi anticinesi, imposti da Trump, che sono ancora in vigore. Sotto questo aspetto, Biden dovrà trovare una difficile quadra tra i colletti blu della Rust Belt (che invocano una linea commercialmente dura verso Pechino) e la Silicon Valley (che storicamente ha visto con fastidio le turbolenze tariffarie sino-americane). Quella stessa Silicon Valley che – ricordiamolo – ha pesantemente finanziato i democratici alle elezioni dello scorso novembre.

La difesa dei diritti umani è un elemento di fondamentale importanza. E Biden fa indubbiamente bene a incalzare la Cina su questo terreno. Ma, se non vuole essere ridotta a mero slogan, la difesa dei diritti umani non può non inserirsi in un'ottica di natura realista, per colpire l'avversario nei suoi interessi più profondi. Solo in questo modo si possono realmente cambiare le cose. Solo in questo modo è tra l'altro possibile arginare con efficacia l'influenza cinese in varie aree del globo (a partire dall'Europa). Solo in questo modo si possono infine gettare le basi di un ordine internazionale fondato su meccanismi coerenti e prevedibili. Non capire ciò significa rinchiudersi nel velleitarismo. E rischiare di spalancare le porte a una pericolosissima instabilità globale.

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Stefano Graziosi