Quelle suore italiane vessate dalla Brexit
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Quelle suore italiane vessate dalla Brexit

Arrivarono in Inghilterra per portare conforto ed educare, ma da quando il Paese è voluto uscire dall’Unione europea non sanno più come rimanere. Non lavorano e non hanno sponsor: loro fanno solo del bene. Ma sono trattate da clandestine.

Questa ormai è la nostra casa, per adesso resistiamo, ma non sappiamo fino a quando sarà possibile». È un vulcano suor Erika Perini, l’ultima delle Suore Operaie, rimasta a risiedere regolarmente nella città di Peterborough, a 50 minuti di treno da Cambridge, dove le famiglie di etnia mista sono ormai la maggioranza. La parlata veloce di chi ha sempre un sacco di cose da fare, il sorriso contagioso e rassicurante, suor Erika è arrivata in questa ex città industriale nel 2018, ma la presenza della sua congregazione risale agli anni Sessanta, quando un gruppo di consorelle vennero qui insieme ai primi italiani che migrarono nel Regno Unito per lavorare nelle industrie locali, impiegati perlopiù nel settore edilizio e in quello della costruzione delle ferrovie. Per decenni la congregazione ha fornito un supporto educativo ai figli di questi lavoratori, immigrati in un Paese che non conoscevano, con tutte le difficoltà che ne conseguono, creando un punto di riferimento per la nuova comunità che si stava formando. Sono state essenziali nel trasmettere i valori e mantenere vive le tradizioni culturali e religiose italiane, favorendo al tempo stesso la comunicazione con la popolazione locale.

Molti dei residenti più anziani, conservano di loro un ricordo affettuoso: hanno frequentato l’asilo da loro fondato, crescendo tra casa e parrocchia, prendendo parte alle attività intorno a cui ruotava la vita della comunità italiana di allora. Dopo la Brexit però, la situazione sta cambiando e anche le suore rischiano di venir spazzate via dalle regole per il permesso di soggiorno divenute molto più restrittive. «Come tutti, dobbiamo poter dimostrare di avere un lavoro retribuito per rimanere nel Paese» racconta suor Erika. «Le ultime consorelle sono arrivate qui con un visto turistico e dopo un po’ devono andarsene. Il problema è che non siamo lavoratori con le alte qualifiche professionali richieste dalla legge sulla Brexit: ci trovi nelle fabbriche, nelle piccole aziende. E non abbiamo uno stipendio, come invece hanno i religiosi di altre comunità, per esempio gli anglicani».

Essendo suore cattoliche, non possono neppure guidare una parrocchia e quindi per restare in Inghilterra devono per forza dimostrare di avere uno sponsor, ma nell’ultimo anno la ricerca è stata veramente difficile. Le ultime due non hanno trovato nulla e sono dovute tornare in Italia, quella brasiliana che ora è qui possiede un visto turistico che non le consente di rimanere a lungo. Ma il problema è anche un altro: per pagare le bollette della casa dove vivono, le suore hanno dovuto passare al lavoro a tempo pieno, trascurando quella che era la seconda parte della loro missione: il supporto e la cura per i più bisognosi, portati avanti sempre in collaborazione con le altre parrocchie locali, in modo continuativo e proficuo.

«La cosa più bella è proprio far parte del vero processo d’integrazione delle varie realtà migratorie» spiega suor Erika «perché se c’è una cosa in cui il Regno Unito ha fatto scuola è questo. I problemi esistono, come ovunque dove s’incontrino e convivano genti provenienti da Paesi diversi, ma qui siamo sempre andati avanti tutti insieme. Si pensi che il mio primo lavoro part-time era in una lavanderia pachistana, dove lavorano principalmente musulmani. Adesso, nella zona dove stiamo e dove un tempo viveva la comunità italiana, c’è la comunità asiatica. Noi ci troviamo tra due moschee, ma continuiamo a fare assieme i nostri incontri pastorali, ragioniamo sugli stessi valori. Ma non so fino a quando questo sarà possibile. La Brexit ha messo tutto in discussione».

La diocesi di East-Anglia, da cui le suore operaie dipendono, sta tentando di aiutarle perseguendo l’unica via possibile, quella dei visti religiosi, ma anche qui si tratta di una strada tutta in salita. Bisogna trovare un progetto ad hoc, reperire i fondi per i visti e non è semplice. «Dobbiamo operare nella piena legalità, ma non vogliamo neppure essere un peso per la diocesi. Con il visto religioso, le altre mie consorelle non potrebbero lavorare come abbiamo sempre fatto, ma almeno potremmo ricostruire una vera congregazione. Anche perché le necessità delle persone non solo esistono, ma sono in costante aumento». Come dappertutto infatti i disagi sociali si sono estesi e i rappresentanti religiosi sempre più spesso suppliscono e integrano alle carenze di una rete assistenziale insufficiente. «Siamo sempre state migranti tra i migranti» conclude suor Erika. «Un tempo ne condividevamo i problemi logistici, educativi, di relazione. Adesso assistiamo alla grande sofferenza di chi è in attesa di un permesso che rischia di non arrivare mai». Il Signore provvederà, dice chi ha fede. Ma chissà che qualcuno, anche un po’ meno in alto, non riesca a provvedere prima...

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Erica Orsini