Taiwan e la minaccia cinese: l’equilibrio fragile tra diplomazia e conflitto imminente
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Taiwan e la minaccia cinese: l’equilibrio fragile tra diplomazia e conflitto imminente

La crescente pressione militare di Pechino e la "strategia del porcospino" di Taipei alimentano le tensioni nel Pacifico. Intanto si avvicina il momento della verità per l'isola e per la leadership di Xi Jinping

Il giorno del passaggio di Hong Kong alla Cina, primo luglio 1997, piovve quasi ininterrottamente, come se anche il cielo avesse qualcosa da ridire. In quell’occasione, un giornalista tedesco chiese all’ultimo governatore britannico uscente, Chris Patten: «Cosa cambierà di più nei prossimi anni, Hong Kong o la Cina?». La sua risposta fu eloquente: «La Cina».

Oggi quella scena sembra in procinto di ripetersi, però con l’isola di Taiwan e soprattutto con altri mezzi che non contemperano la diplomazia. La «settimana difficile» del governo di Taipei è iniziata ieri, quando 153 aerei militari cinesi hanno sorvolato minacciosi lo spazio aereo sopra l’isola di Taiwan. Non sono ancora i preparativi di un’invasione, ma gli somigliano molto. Si è trattato infatti delle esercitazioni a conclusione della giornata delle Joint Sword 2024/B con cui Pechino ha voluto inviare un «severo avvertimento» alla leadership dell’isola di Formosa, per dissuaderla da eventuali «atti separatisti delle forze indipendentiste». O forse sono le prove generali di un tentativo di sbarco che nei prossimi anni (o mesi) potrebbe prendere corpo.

Giunti al terzo mandato di Xi Jinping, il leader della Cina comunista ha compiuto un’accelerazione improvvisa e programmato l’annessione di Taiwan («il ritorno» come dice lui) entro il 2025, anticipando di parecchio quel 2049 che segnerà il centenario della fondazione della Repubblica Popolare: l’annessione dell’isola per quella data sarebbe il miglior modo per festeggiare il centenario e chiudere una lunga pagina di storia rivoluzionaria.

Sono ormai in pochi a questo punto a dubitare che la riunificazione con la madrepatria dell’isola «ribelle» sia un obiettivo trascurabile da parte della leadership cinese, specie dopo una serie ininterrotta di provocazioni da parte di Pechino. Il presidente/segretario Xi vorrebbe infatti che il progetto dell’«unica Cina» si concretizzasse entro quella data, per farne il fiore all’occhiello della sua eredità; un po’ come Vladimir Putin intende conquistare l’Ucraina perché i posteri possano dire che il leader russo ha ampliato lo spazio vitale della Federazione. Il motivo di questi intenti bellicosi è presto spiegato: come Putin è spinto dall’ideologia e vede ogni cosa in ottica imperialista, così pure Xi crede di poter passare alla storia come lo statista che è riuscito laddove nemmeno Mao Zedong aveva potuto né osato.

Annettere l’isola di Taiwan sarebbe infatti il compimento di una vita, quella del leader cinese, che è andata oltre le più rosee speranze. Ma potrebbe anche rivelarsi un terribile boomerang, come sta sperimentando lo stesso Putin nel pantano ucraino. Sulla carta, infatti, lo strapotere della Cina è evidente: 1,4 miliardi di cinesi contro appena 24 milioni di cinesi/taiwanesi consentono alle forze armate di Pechino a buon diritto di sognare che il «risorgimento della nazione cinese» giunga ben prima del 2049. Anche perché la fine del terzo mandato di Xi coincide in teoria con il 2028, il che complica non poco le cose se diamo credito al fatto che, come dicono sottovoce alcuni dirigenti di minoranza del Partito Comunista, l’annessione per Xi Jinping fa rima con ossessione.

Quando il governatore del Guandong Xi Zhongxun, istituì le zone economiche speciali nella sua provincia, si assicurò che anche la provincia del Fujian ne ottenesse una, nella città costiera di Xiamen. Così nel 1985, il leader del Partito della provincia del Fujian, Xiang Nan, per restituirgli il favore, fece quindi in modo che il figlio del suo amico Xi Zhongxun, diventasse vice sindaco della città di Xiamen, che si trova proprio di fronte a Taiwan. E chi era quel figlio fortunato? Proprio Xi Jinping, che dalla prestigiosa posizione ottenuta grazie al padre, aprendo le finestre del proprio ufficio poteva quasi vedere l’isola di Formosa e ogni mattina masticava amaro per la mancata annessione. Così, si ripromise un giorno di porvi rimedio, a ogni costo e con ogni mezzo.

Questa la narrazione romantica. Poi c’è quella assi più concreta che vede lo Stretto di Taiwan costituire a tutti gli effetti un obiettivo strategico ineludibile per il passaggio delle merci cinesi verso il ricco Ovest. E dunque, Xi o non Xi, sogno o non sogno, quella striscia di mare non può essere lasciata in gestione a Paesi ostili (nel frattempo, come noto Taiwan si è dato un autogoverno democratico e si è legato fortemente all’Occidente).

Ma un’invasione militare si sa quando e come comincia, mentre se ne ignora del tutto la fine. Di esempi ne è piena la storia e attualmente, non solo Putin ma anche Netanyahu in Israele, si devono confrontare con una realtà sul terreno ben diversa da quella così favorevolmente descritta negli accurati piani di guerra dei suoi generali.

Pechino contro Taiwan schiera la forza marina teoricamente più potente del mondo: con circa 360 navi da combattimento, ha superato negli ultimi anni persino la flotta statunitense, che oggi dispone di poco meno di 300 imbarcazioni. Vanta 50 fregate, 32 cacciatorpediniere, 60 sottomarini, 21 navi da sbarco e 2 portaerei. E ha anche l’aviazione più grande dell’Asia: nel 2020 contava 1.527 aerei da combattimento e 722 da trasporto, a cui andrebbero aggiunti altri 290 aerei da caccia in dotazione alla marina, 281 elicotteri da attacco e 985 da trasporto.

La marina di Taiwan, invece, ha pochi sottomarini dalla tecnologia datata e una flottiglia di pattugliatori di superficie, inadatti a fermare o anche solo rallentare un tentativo di sbarco. Va meglio all’aeronautica che, però, con appena 260 aerei da combattimento e alcuni caccia prodotti internamente, non riuscirebbe a garantire una «bolla difensiva» a lungo termine sopra lo Stretto.

Non è dunque sullo scontro aperto in mare o nei cieli che si giocano i destini dell’isola. Piuttosto, nella war room di Pechino si ragiona su quanto l’isola sia difendibile dai taiwanesi. Ed ecco spiegati i frequenti sorvoli di jet cinesi sopra lo spazio aereo di Formosa, che servono a Pechino per monitorare la reale condizione delle difese dell’Isola e non certo come mera provocazione.

La strategia del porcospino

Secondo i piani di guerra americani, per scompaginare le unità da sbarco cinesi potrebbe bastare una difesa a oltranza per mezzo dell’artiglieria pesante (da cui le richieste agli europei): l’isola di Formosa dista meno di 180 chilometri dal continente e - con i missili che Washington fornisce (e fornirà) a Taipei - alle forze d’attacco di Pechino servirebbero settimane per completare le operazioni di sbarco sotto una pioggia di missili diretta contro la flotta. Batterie di sistemi antinave a corto e medio raggio sono già oggi disseminate nei punti nevralgici della costa prospiciente lo stretto di Taiwan. Dunque, fintanto che le difese missilistiche di Taipei non vengono annientate, l’Isola non può essere conquistata.

La chiamano «strategia del porcospino» e consiste nel dotarsi di un ingente arsenale di missili e di una fitta rete di pezzi d’artiglieria, per resistere all’onda d’urto cinese. Inoltre, gli ingegneri di Taipei hanno passato decenni a scavare tunnel e bunker per proteggere civili e soldati proprio a questo scopo, in quanto l’intera strategia di difesa nazionale di Taiwan si basa proprio sul contrastare un’invasione cinese.

Ecco spiegato il motivo per cui Pechino ha mandato da due anni alcuni suoi osservatori in Ucraina, dove la battaglia per il Donbass si combatte soprattutto a suon di missili e contraeree. I generali cinesi vogliono capire quanto efficaci (e quanto a lungo) siano i sistemi d’arma che l’Occidente ha fornito a Kiev, anche perché del tutto simili a quelli che gli Stati Uniti hanno già fornito e forniranno a Taipei, ed eventualmente scoprirne i lati deboli, da sfruttare poi sul campo. Per questo Wang Wenjuan, esperto dell’Accademia di scienze militari e membro del Partito Comunista cinese, ha voluto mandare un messaggio anzitutto agli Usa: «Smettano di armare Taiwan e inviare segnali sbagliati alle forze separatiste per l’indipendenza di Taiwan».

I tamburi di guerra dunque risuonano nella Città Proibita come lungo lo Stretto di Taiwan, in attesa del casus belli che offra il pretesto a Pechino di tentare l’insondabile: muovere guerra dopo quasi ottant’anni di pace, con tutte le incognite del caso, compresa la eventuale risposta della superpotenza americana. «Taiwan non sarà mai un Paese autonomo e la Cina non rinuncerà mai all’uso della forza», ha chiarito sul tema il portavoce del ministero della Difesa cinese, Wu Qian, questa settimana. «L’obiettivo è costringere Taiwan a sentire la deterrenza della guerra, trasmettendo un messaggio chiaro: la secessione significa guerra».

Di là da questi allarmismi, in ogni caso, resta la speranza che tutte le amministrazioni in carica, compresa quella di Joe Biden, giungano a più miti consigli. Senza considerare che, non essendo Taiwan un Paese riconosciuto dalla comunità internazionale né membro effettivo delle Nazioni Unite, sarebbe difficile convincere l’Occidente a difenderlo. Solo il Giappone potrebbe non curarsi di questi formalismi, considerato che la minaccia cinese lo coinvolge direttamente. Questo Xi Jinping lo sa e nelle oscure stanze del potere medita sul da farsi. Per quanto ancora, lo vedremo presto.

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Luciano Tirinnanzi