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(Ansa)
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Trump-Fbi; quando la giustizia entra alla Casa Bianca

La perquisizione nella casa dell'ex Presidente Usa è solo l'ultima tappa di una storia di rapporti travagliati tra la Casa Bianca ed i giudici

Per capire quello che sta succedendo nei palazzi del potere di Washington D.C. in queste ore, dobbiamo ricostruire l’intera storia che ha caratterizzato la turbolenta presidenza Trump e il suo scontro aperto con il Federal Bureau of Investigation. L’irruzione nella villa di Mar-a-Lago, in Florida, nella residenza privata di Donald Trump lo scorso 8 agosto, segna certamente il punto più basso di una vicenda iniziata nel lontano 2016.

L’Fbi ha perquisito la sua villa forzando la cassaforte del Tycoon e ha sequestrato 15 casse di documenti (è la prima volta che i federali eseguono un mandato di perquisizione nella casa di un ex presidente), ma l’episodio potrebbe anche non essere legato alle indagini per l’assalto a Capitol Hill del 2021 o alla sottrazione di documenti ufficiali da Washington all’indomani della sua dipartita dalla Casa Bianca. Questo ha a che fare con la volontà dell’FBI di distruggere a ogni costo Donald Trump con ogni mezzo possibile, e impedirgli di candidarsi presidente nel 2024.

Spoiler: costituzionalmente, niente impedirà a Trump di ripresentarsi alle presidenziali anche se dovesse essere condannato per un reato. Il perché è nei requisiti requisiti richiesti ai candidati dalla Carta, ovvero essere cittadino statunitense di almeno 35 anni e aver vissuto negli Usa per almeno 14. E Trump li rispetta entrambi. Detto questo, il tycoon che dal New Jersey ha conquistato Manhattan prima e la Casa Bianca poi, è ormai un’ossessione per quella parte di federali che non lo volevano a Washington.

L’inizio di tutto

Tutto comincia con la vittoria fuori da ogni pronostico del repubblicano nel novembre del 2016, e dalla mancata accettazione di quel risultato da parte dei democratici e dello stesso Bureau. Mai, nella storia recente degli Usa, si era assistito a una transizione tanto turbolenta quanto quella tra il democratico Barack Obama e il repubblicano Trump.

Nel tentativo di delegittimare il suo successore, subito dopo le presidenziali Obama (in carica sino al 20 gennaio 2017) commissiona alla comunità d’intelligence un’indagine sulla possibile influenza illecita esercitata dai servizi segreti russi nell’orientare l’elettorato americano a favore del repubblicano. Il report, intitolato Assessing Russian Activities and Intentions in recent US elections, viene presentato su ordine di Obama allo stesso Donald Trump il 6 gennaio 2017 durante un incontro tra il neo presidente e gli allora vertici delle agenzie d’intelligence americane: James Clapper, direttore della National Intelligence; John Brennan, direttore della Cia; Michael Rogers, direttore della Nsa; James Comey, direttore dell’FBI.

Secondo il report, i servizi segreti militari russi (Gru) avrebbero manipolato le intenzioni di voto degli elettori americani, screditando la candidata democratica Hillary Clinton dopo una serie di hackeraggi dei computer dei suoi più stretti collaboratori. Il Gru avrebbe successivamente fornito notizie in grado di imbarazzare la Clinton al sito Wikileaks di Julian Assange, il quale poi le ha rese pubbliche nelle ultime settimane della campagna elettorale.

In realtà, dopo un’attenta lettura delle 25 pagine del report, l’intelligence Usa è costretta a dichiarare che «non ci sono prove di una macchinazione che abbia alterato il voto dell’8 novembre». Ma è solo l’inizio di un assalto violentissimo contro il titolare della Casa Bianca. Un assalto che a oggi non conosce fine.

Nel gennaio del 2017, quando ancora non si è insediato, Donald Trump riceve il primo attacco diretto: viene accusato dai servizi segreti di essere sotto ricatto da parte di Mosca. La dimostrazione di questa tesi parte con un documento fatto trapelare dall’FBI alla stampa. Si scoprirà solo dopo che trattasi di un palese falso: una finta nota spese per una notte passata da Trump al Ritz Carlton di Mosca con prostitute e una serie di strani affaristi del settore immobiliare.

Quel falso dossier di 35 pagine viene fatto uscire a nove giorni dal giuramento del presidente, proprio nel giorno in cui Trump deve tenere la sua prima conferenza stampa. È questo episodio che sdogana definitivamente nei media il neologismo «fake news» (lo stesso Trump ne farà un simbolo della sua battaglia contro i media e i democratici).

Il dossier, si scoprirà, è stato confezionato ad arte da un ex agente dell’intelligence britannica, che ha agito su commissione di alcuni oppositori repubblicani di Trump, che volevano tagliarlo fuori dalla corsa alle primarie. Tale è l’imbarazzo dei servizi segreti che James R. Clapper, direttore dell’Intelligence Nazionale, l’11 gennaio 2017 è costretto a pubblicare una lettera di scuse alla nazione, nella quale afferma: «Ho sottolineato che questo documento non è un prodotto della Comunità d’Intelligence degli Stati Uniti e che non credo che le fughe di notizie siano venute dall’interno della IC. La Comunità d’Intelligence non ha espresso alcun giudizio sul fatto che le informazioni contenute in questo documento possano essere affidabili, e non abbiamo fatto in alcun modo affidamento su di esso per trarre le nostre conclusioni».

Intrigo tra Russia e Ucraina

Non è finita qui. Il 15 maggio il Washington Post dà notizia di alcune informazioni top secret rivelate da Trump al ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. Il quotidiano sostiene che nell’incontro nello Studio Ovale del 10 maggio tra Trump, Lavrov e l’ambasciatore russo Kislyak, il presidente abbia rivelato «informazioni in codice altamente classificate» riguardanti lo Stato Islamico. Il Post dice di aver ricevuto questa informazione da funzionari interni all’Amministrazione.

La tesi è che Trump abbia messo in pericolo la sicurezza degli Stati Uniti, rivelando a una potenza nemica informazioni segrete. Mentre il Cremlino liquida lo scoop come un insieme di «sciocchezze senza senso», si scopre che, anche se avesse rivelato segreti a Lavrov, il presidente non avrebbe commesso alcun reato. In quanto, secondo la costituzione Usa, egli è il «comandante in capo» e, come tale, detiene il diritto di usare le informazioni segrete secondo il suo insindacabile giudizio.

Mentre le polemiche sul «caso Lavrov» cominciano a perdere mordente, il fuoco viene sapientemente ravvivato il 16 maggio. Questa volta, lo «scoop» è del New York Times. Alcuni stretti collaboratori di James Comey - l’ex direttore dell’FBI silurato da Trump agli inizi di maggio - rivelano (anonimamente) che dalla lettura di un memorandum steso da Comey ai primi di febbraio dopo un incontro con Trump alla Casa Bianca, si evince che il presidente abbia tentato di «ostacolare il corso della giustizia» facendogli pressioni affinché interrompesse le indagini sui possibili contatti con la Russia del suo ex consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn.

In realtà, le stesse fonti anonime dell’FBI riveleranno che Trump aveva espresso solo «la speranza» che il direttore lasciasse «cadere la cosa» in quanto Flynn era «un brav’uomo». I democratici gridano all’impeachment. Ma il nuovo direttore dell’FBI, Andrew Mc Cabe, deponendo sotto giuramento di fronte a una commissione parlamentare, dichiara: «Non c’è stato alcun tentativo, fino a questo momento, di ostacolare la nostra inchiesta. Per dirla in modo semplice, non c’è modo di bloccare il lavoro degli uomini e delle donne dell’FBI in difesa della Costituzione degli Stati Uniti».

Nonostante questo, sui media liberal iniziano i paragoni con il caso Watergate, trascurando il fatto che Richard Nixon nel 1972 si rese realmente responsabile di un «comportamento criminale» quando autorizzò un gruppo di esiliati cubani al comando di un ex agente della CIA a penetrare illegalmente nei locali dell’albergo (che ha poi dato il nome alla scandalo) dov’era il comitato elettorale democratico, per piazzare delle microspie.

Ora, di fronte a questo e agli altri reati compiuti dall’allora presidente Nixon, costretto nel 1974 alle dimissioni dopo una serie d’inchieste penali e congressuali che avrebbero portato inevitabilmente al suo impeachment, le accuse a Trump - che, va detto, durante la sua presidenza ha fatto di tutto per farsi del male da solo - appaiono veniali e pretestuose.

Ma l’odio politico ormai dilaga in America. Ed ecco che, puntuale, nel settembre del 2019 Donald Trump viene messo davvero in stato d'accusa - si vota cioè per l’impeachment a suo carico - per presunte pressioni da lui esercitate sul neoeletto presidente ucraino (l’ormai celebre Volodymyr Zelensky), al fine di ottenere indagini più approfondite su Hunter Biden, figlio di Joe Biden, suo prossimo avversario alle imminenti elezioni presidenziali. Trump è accusato di aver ordinato alla sua Amministrazione di bloccare gli aiuti militari per l’Ucraina già approvati dal Congresso, se Zelensky non gli fornirà prove per screditare il candidato democratico. Il processo per impeachment a suo carico dura dal gennaio al febbraio 2020, e si conclude con la sua assoluzione.

Ma neanche questo sembra bastare per chi teme una possibile rielezione del presidente repubblicano alle presidenziali del 2024. Nel febbraio del 2021, a pochi giorni dalla fine del suo mandato, Donald Trump è nuovamente messo in stato di impeachment per aver incitato l'assedio al Campidoglio del 6 gennaio precedente, quando cioè una folla di fanatici assalta il Congresso degli Stati Uniti. Trump non li ha fermati, anzi li ha incitati secondo l’accusa. L’FBI però non ha prove, e il tycoon viene assolto anche da questa accusa.

I precedenti impeachment e il ruolo dell’Fbi

In precedenza, nel 1998 era toccato al presidente Bill Clinton essere sottoposto alla procedura d’impeachment; in quel caso, per spergiuro e ostruzione della giustizia dovuto a uno scandalo sessuale (la sua relazione con la stagista Monica Lewinsky, da lui inizialmente negata). Assolto da tutti i capi d’imputazione, Clinton concluderà la sua presidenza, cosi come è accaduto per Donald Trump.

Prima di loro si deve risalire alla fine della guerra civile americana, quando il democratico Andrew Johnson nel 1868 - succeduto al presidente Abraham Lincoln, assassinato a teatro tre anni prima - subisce un processo di impeachment per aver rimosso il ministro della Guerra Edwin Stanton e aver designato al suo posto il generale Grant. Anche Johnson finirà assolto e, tra l’altro, gli succederà proprio il repubblicano ed eroe di guerra Ulysses S. Grant.

Detto ciò, e constatato che l’impeachment è spesso usato come uno strumento politico, appare evidente che, da quando Donald Trump è diventato presidente, si guarda ancora il dito senza vedere la luna. Non è tanto la colpevolezza di Trump che si punta a dimostrare con prove schiaccianti. Né i rapporti tra la sua Amministrazione e il Cremlino. O l’uso originale della presidenza operato da parte di Trump.

Il cuore di questa storia, che inizia nel 2016 e finisce (per adesso) a Mar-a-Lago, è la volontà dell’FBI - un’istituzione di polizia federale che dovrebbe essere al di sopra delle parti e garantire la giustizia nel Paese senza colorazioni partitiche - di eliminare Donald Trump dalla scena politica con ogni mezzo possibile. Anche se questo fosse giusto, non sarebbe comunque compito dei federali. Il che fa del bureau e dell’intelligence Usa in generale uno strumento che ha deviato dal proprio compito istituzionale. Cosa che è ben più pericolosa di avere ancora in giro un personaggio bizzarro come l’ex presidente repubblicano.

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Luciano Tirinnanzi