Turchia: ecco i veri piani del Sultano
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan accelera la sua azione a livello globale. Dialoga con Mosca sull’Ucraina, ma chiede all’Unione europea di partecipare al suo riarmo. Detta legge in Libia e fa affari con le ex repubbliche sovietiche dell’Asia. Intraprendente all’estero per tenere a bada la complicata situazione interna
L’ultima, spiazzante mossa del Sultano è stata ospitare Volodymyr Zelensky, a fine febbraio, mentre in Arabia Saudita russi ed americani dialogavano sul futuro dell’Ucraina. Con la consueta spregiudicatezza candidava la sua Turchia come sede ideale per ospitare i colloqui di pace, dicendosi pronto a schierare truppe a Kiev all’interno di una missione internazionale. Per Recep Tayyip Erdogan soltanto con la presenza del suo Paese sarebbe possibile parlare di una forza equa e giusta per tutti. Durante questi tre anni di guerra il presidente ha infatti mantenuto rapporti sia con Mosca sia con Kiev, rifornendo l’esercito del Paese invaso dei micidiali droni Bayraktar TB2. Il leader turco riesce sempre a ritagliarsi un ruolo da protagonista, tenendo vivo l’orgoglio imperiale del suo popolo. Una strategia accorta per spostare il fuoco dell’attenzione dalle enormi difficoltà economiche interne che si trascinano da troppi anni.
Il tasso di cambio della lira turca nel 2023 ha registrato una svalutazione del 63 per certo sull’euro, mentre nel 2024 l’inflazione è stata pari al 62 per cento su base annua. Dal 2021 la Turchia è entrata in uno stato di iperinflazione con picchi del 75 per cento, soprattutto a causa della politica monetaria della propria Banca centrale. Durante la ripresa post-pandemica i tassi di interesse sono stati tenuti artificialmente bassi, spingendo eccessivamente la domanda interna. Al tempo stesso, si è aumentato pensioni e stipendi per i dipendenti pubblici, soltanto a fini elettorali e provocando il crollo della valuta nazionale. Negli anni è così cresciuta la posizione debitoria ed è salito il costo delle importazioni. Una serie di errori economici che hanno impoverito la popolazione, ma che hanno portato voti a Erdogan alle elezioni generali del 2023. A sfidare il presidente si è presentato Kemal Kihcdaroglu del Partito popolare repubblicano, un economista che lo aveva attaccato proprio sulla gestione del Paese, che comunque è stato sconfitto al ballottaggio. Un candidato troppo debole per Erdogan che teme soltanto il giovane sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, popolare soprattutto fra le nuove generazioni.
In ogni caso, il Sultano rimane un membro della Nato, dove però non rispetta le regole e, contemporaneamente, flirta con i Brics, l’alleanza economico-politica guidata da Mosca e Pechino. La Cina d’altra parte rappresenta il primo partner commerciale turco in Asia e l’interscambio commerciale tra i due Stati ammontava a oltre 47 miliardi di dollari nel solo 2023. Ma l’adesione al gruppo di questi «non allineati» pare soltanto una minaccia all’Europa, visto che dal 2006 resta in sospeso la domanda di adesione della Turchia alla Ue. Hakan Fidan, il ministro degli Esteri, ha elogiato di recente la natura inclusiva dei Brics, contrapponendola alla rigidità del Vecchio continente, ma ribadendo che tutto si fermerebbe se Ankara entrasse nella Unione. Non più tardi del 6 marzo scorso, con gli Stati di questa che si stanno organizzando per il proprio riarmo, Erdogan ha affermato «che non c’è alcuna giustificazione per escluderci».
Un ulteriore successo l’ha ottenuto con l’infinita questione curda. Ha convinto Abdullah «Apo» Öcalan, il leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), a chiedere alla propria organizzazione di deporre le armi e sciogliersi. Un appello che riguarderebbe però soltanto il Pkk in Turchia e non la sua compagine siriana del Partito dell’unione democratica (Pyd). Dice a Panorama Salih Muslim, membro del comitato esecutivo del Pyd: «Abbiamo ascoltato con attenzione l’appello di Apo Öcalan, ma non ci riguarda. Lui ha parlato soltanto al Pkk, la Siria ragiona con la sua testa. Qui la lotta continua e la Turchia sta utilizzando questi momenti complicati per attaccare le nostre città. Usando i loro burattini del sedicente Esercito siriano libero, a dicembre hanno sottratto al nostro controllo le città di Manbij e Tal Rifat. Impiegano i miliziani filo-turchi come mercenari in Azerbaigian, Libia e in Africa e il loro obiettivo è sterminare il popolo curdo».
Intanto, a Damasco, il governo degli ex jihadisti voluto dal presidente ad interim Al Jolani ha firmato un accordo con Ankara per l’addestramento dell’esercito e si è detto pronto a integrare tutte le milizie filo-turche disinteressandosi dei curdi. La longa manus turca da diversi anni ha assunto anche il controllo della Tripolitania, in Libia occidentale, dove il debole Governo di unità nazionale (Gnu) resta in piedi soltanto grazie all’appoggio dei mercenari siriani. Riconosciuto dalle Nazioni Unite, controlla a malapena la capitale e ha come mentore politico Erdogan. Al Taher Salem Al Baour è il ministro degli Esteri del Gnu che dice al nostro settimanale: «Con la Turchia la collaborazione vanta radici profonde. Tengo a ringraziare il suo presidente per il sostegno agli sforzi per la stabilità in Libia, appoggiando l’unico governo legittimo. Da cinque anni lavoriamo a stretto contatto sia a livello economico sia militare. La Turchia è nel nostro Paese per un contributo decisivo alla crescita e alla sicurezza di tutta la regione».
Un affare assai vantaggioso che ha portato a una serie di accordi di sfruttamento delle risorse offshore nel Mediterraneo con il chiaro obiettivo di limitare l’accesso a Grecia ed Egitto e accrescere il peso turco nel Mediterraneo orientale. La Zona economica esclusiva libica (Zee) si sovrappone infatti ad aree di esplorazione greche ed egiziane in un quadrante che dalle prime prospezioni disporrebbe di due grandi giacimenti di gas liquefatto. Questo equilibrio però viene messo in discussione dal Governo di stabilità nazionale con sede a Tobruk che ha in Aquila Saleh il capo politico, ma che risponde direttamente al generale Khalifa Haftar, comandante dell’Esercito nazionale libico (Lna). È Haftar l’uomo che ha aperto le porte della Libia alla Russia, dopo un viaggio a Mosca nel 2016 da dove ritornò con un sostanzioso versamento fondamentale per pagare il suo esercito personale che conta circa ventimila effettivi. Russi e turchi da allora, pur con tensioni reciproche, convivono in quest’area del Nordafrica, spartendosi influenza e ricchezze.
Ankara guarda poi con estremo interesse anche al Caucaso e all’Asia centrale, dove guida l’Organizzazione degli Stati turchi (Ots). Ecco che, in Azerbaigian, Erdogan gioca la carta del «panturchismo» con il popolo azero per chiudere contratti energetici e rafforzare i corridoi di trasporto di gas e petrolio verso l’Europa. La recente guerra del Nagorno-Karabakh è stato un altro esempio di come Russia e Turchia riescano a trovare un equilibrio. Soltanto il disimpegno militare di Mosca ha permesso agli azeri di occupare la regione contesa da decenni. E l’Azerbaigian ha anche firmato un accordo per l’acquisto di armi e l’addestramento militare. Anche più a est Erdogan muove le sue pedine fra gli Stati turcofoni come Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan. Qui punta a limitare l’influenza russa con l’obiettivo di un accesso al Mar Caspio, ricco anch’esso di risorse naturali e sbocco di porti che consentono il transito dall’Asia centrale verso Caucaso e Anatolia. È un mosaico complesso dove viene applicata la cosiddetta «dottrina Davatoglu», studiata dall’omonimo e smaliziato ex ministro degli Esteri. Guidata dal concetto di «profondità strategica», prevede una politica attiva nei teatri vicini alla Turchia, promuovendo l’interdipendenza economica ma senza tralasciare i rapporti con l’Occidente. È una molteplicità di piani di azione e influenza, sempre in movimento, difficili da gestire per chiunque: non per il sultano Erdogan però.