Michele Misseri Avetrana
ANSA / FOTO RENATO INGENITO
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Delitto Avetrana: quel superteste imbottito di farmaci

E se le dichiarazioni caotiche di Michele Misseri fossero causate da psicofarmaci?

In molte carceri lo chiamano «il carrello della felicità». È quello che passa la sera, ma per alcuni anche la mattina e all’ora di pranzo, con un vasto assortimento di psicofarmaci. Medicine che servono a far dormire, ma anche a evitare crisi di panico, convulsioni, sbalzi di umore pericolosi. Il problema è che la «pace chimica» di massa, indubbiamente comoda per uno Stato che fatica a gestire le sue prigioni in modo civile, crea dipendenze ed effetti nefasti anche a distanza di anni. Oltre al fatto che il recluso imbottito di pilloline di ogni tipo e colore, se è in custodia cautelare, poi può avere seri problemi a presentarsi agli interrogatori in condizioni decenti. E Michele Misseri, il «mostro di Avetrana», che nell’ottobre 2010 prima confessa di aver ucciso la nipote quindicenne Sarah Scazzi e poi invece ritratta e accusa la figlia Sabrina, diventando nei superficiali talk show del pomeriggio una specie di «scemo del villaggio», quello che non si ricorda nulla e cambia continuamente versione, ecco: Michele Misseri è un detenuto che ha pescato a piene mani dal carrello della felicità. Tanto da lamentarsene ai colloqui in carcere con l’altra figlia, Valentina, e con la moglie Cosima. Tanto da implorare di non essere imbottito di psicofarmaci almeno alla vigilia degli interrogatori con il pubblico ministero. Tanto che, nonostante Misseri sia in isolamento, un compagno di detenzione si preoccupa del suo rimbambimento e lo descrive accuratamente su un quaderno. Gli agenti della polizia penitenziaria trovano quel quaderno e interrogano anche il suo autore. Ma non serve a niente, tutti gli altri si voltano dall’altra parte e non si curano del fatto che il superteste sia un fantasma rintontito, che non mangia, barcolla e straparla.

Tutta questa storia, a volerne raccogliere i pezzi da terra, è agli atti dei tre processi che alla fine, nel febbraio 2017, hanno condannato all’ergastolo Sabrina e Cosima Misseri per l’omicidio di Sarah, scomparsa da casa quel maledetto 26 agosto 2010. Alla fine del procedimento anche Zio Michele verrà condannato, per occultamento e soppressione di cadavere, ma all’inizio è lui che si addossa tutte le colpe. Solo che la Procura di Taranto non gli crede. Intanto, però, lo tiene in isolamento, come si fa con chi si accusa di reati infamanti, anche se il carcere (a sorpresa) emette subito la sua sentenza di assoluzione e i detenuti fanno addirittura  una colletta per comprargli gli occhiali. Per l’eterogenesi dei fini, le stesse microspie che - poste nella cella di Michele - dovrebbero agevolare l’accusa contro di lui, inrealtà finiscono soprattutto per registrare gli effetti delle pillole su questo contadino di 56 anni.

Il 25 ottobre 2010, per esempio, Michele incontra sua figlia Valentina. Sono passati dieci giorni dal fermo di Sabrina. Il colloquio è trascritto dai carabinieri e Valentina, all’inizio un po’ aggressiva, sostanzialmente interroga suo padre. Ma pian piano, di fronte a un uomo che non ricorda nulla o sragiona, cerca di aiutarlo. Ed esce ben presto il motivo di tutta quella confusione mentale. «Però, il fatto che tu non ti stai ricordando niente...», si spazientisce lei a un certo punto. E Michele si scusa: «Non mi ricordo per il fatto dei farmaci… è normale». A Valentina, però, la cosa non sembra affatto «normale» e insiste: «Ma perché ti danno questi farmaci?». E Michele dà la classica risposta del prigioniero, prima psichico e poi fisico: «Me li devono dare per forza. Hanno detto che li devo prendere».

La figlia a questo punto taglia corto e dice che riferirà tutto all’avvocato, ma il padre aggiunge altri particolari: «Già per quattro volte non ho preso le medicine e mi hanno rimproverato». Poi chiede alla figlia di far arrivare un messaggio ai pm: «Che mi eliminano queste cose qua, che se no metto l’avvocato di fiducia». Anche dopo aver provato per mezz’ora a ricostruire la scena dell’omicidio di Sarah, che singolarmente padre e figlia chiamano sempre «la ragazza», Michele torna sul tema che lo angoscia di più: «Io non sto solo male di testa, sto male pure che quell’innocente sta pure là...», dice riferendosi alla figlia Sabrina, arrestata dieci giorni prima proprio per la chiamata in correo di Michele. E a quel punto Valentina gli intima: «Questo lo devi dire, che se tu devi essere lucido... Magari te li prendi mo’, ma quando sanno che ti devono fare un interrogatorio per quattro o cinque giorni non ti prendi nulla». 

Tanto per chiarire che questa non è la lamentela di un giorno più storto degli altri, anche nel colloquio intercettato il 22 ottobre 2010 Misseri dice alla figlia, che lo rimprovera di aver accusato Sabrina: «Io imbottito stavo! Erano dei farmaci per fare effetto la notte, ma la notte non hanno fatto proprio niente... hanno fatto effetto la mattina e pensa che un altro po’ prima di andare all’interrogatorio buttavano la porta a terra... Io non ci stavo capendo niente. Io non sapevo proprio cos’era».

Il peggio, però, deve ancora avvenire. Il 22 novembre 2010, Misseri racconta alla moglie e a Valentina che il suo stesso avvocato e alcuni consulenti di parte lo avrebbero indotto a sostenere una versione addomesticata nell’interrogatorio del 5 novembre e nell’incidente probatorio. Sempre intercettato, Michele affronta le domande della figlia, che a un certo punto gli chiede: «Come t’è uscito di dire il nome della Sabrina? Te lo hanno inculcato gli altri?». E qui il padre dimostra tutta la sua drammatica confusione mentale: «No, i criminologi lo hanno detto. Hanno detto: “O ci dici così, la Sabrina tra poco esce. Se non dici, non esce”». La moglie e la figlia, esterrefatte, lo incalzano per sapere chi gli abbia consigliato l’ultima versione e Misseri risponde: «La criminologa, l’avvocato e un altro». La criminologa è Roberta Bruzzone, l’avvocato è Daniele Galoppa (poi sostituito) e la terza persona è un inquirente di cui Misseri non ricorda il nome.

Al termine di questo incontro, Valentina, allibita, cerca un’ultima volta di far ragionare il papà: «Ma come esce (quella frase, ndr)? Se tu hai detto che ha ucciso, come cazzo esce?». E lui, come un disco rotto: «Esce. Esce». E quando esce, insistono le due donne? «Mi hanno detto che Sabrina, due anni ed esce». Conclusione amara di Valentina: «Papà, ti hanno proprio plagiato bene!». 

Dopo questa discussione con Michele, Valentina Misseri e la madre Cosima vanno in caserma dal capitano dei carabinieri Nicola Abbasciano, per denunciare quanto hanno appreso durante il colloquio. Al momento  questa denuncia è rimasta cristallizzata nel fascicolo a carico di Sabrina Misseri, senza alcuna iscrizione nel registro degli indagati per i denunciati, né per calunnia a carico della denunciante Valentina. Va detto che invece Michele è stato appena condannato anche per calunnia, perché aveva ripetuto quelle affermazioni  in un’udienza.

Il 26 gennaio 2011, il mistero s’infittisce. Gli agenti trovano un diario nella cella di un detenuto, Clemente Di Crescenzo, dove si parla di Misseri. Di Crescenzo rende subito dichiarazioni spontanee agli agenti, e spiega che lui scrive sempre le cose più importanti della giornata: «Spero di non aver fatto nulla di male» dice. «Mi aiuta a scaricare la tensione e non ho fini diversi».

Facendo le pulizie nell’infermeria, il recluso dichiara di avere parlato più volte con Michele, che gli ha immediatamente fatto compassione. Gli ha spesso compilato le «domandine», cioè le istanze rivolte alla direzione del carcere, «perché lui non è capace». Aggiunge Di Crescenzo: «Mi faceva molta pena perché ha sempre gli occhi lucidi, come se volesse piangere». Con Clemente, zio Michele si è confidato, ha raccontato della sua vita di contadino, di quando faceva l’operaio in Germania, «e che non aveva stima di suo nipote Claudio, perché quando successe la disgrazia di sua sorella Sarah non scese da Milano a cercarla». Ed ecco che cosa poi scrive Clemente, tutto in stampatello, sul suo diario: «Si dispiaceva che Sabrina stava in carcere da innocente, perché lui aveva fatto quelle dichiarazioni solo perché confuso dagli psicofarmaci».

Nel diario, subito sequestrato e consegnato ai magistrati con il verbale di Di Crescenzo, si legge anche: «Michele paragona la sua vicenda a quella di Barabba e Gesù, perché dice che alla fine Barabba fu assolto e Gesù crocefisso. Non è una persona di cultura, ma in questo luogo dove mi trovo non ho ancora conosciuto una persona più mite di Michele». Non ce n’è abbastanza per nutrire qualche dubbio sulle confessioni di un uomo? 

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(3- Continua)

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Francesco Bonazzi