Delitto di Avetrana: autopsia e dubbi
Malgrado al sentenza di Cassazione ci sono ancora dubbi sulla morte di Sarah Scazzi e la condanna di Sabrina Misseri e Cosima Serrano
Certo, c’è anche chi, come padre Gratien Alabi, a dicembre del 2017 è stato condannato in secondo grado a 27 anni per omicidio volontario, senza che il corpo della sua presunta vittima, Guerrina Piscaglia, sia mai stato trovato. Con il religioso congolese che si dichiara innocente e aspetta fiducioso la Cassazione. Ma a esaminare la frettolosa autopsia eseguita su Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana, in provincia di Taranto, sparita da casa nel primo pomeriggio di giovedì 26 agosto 2010, viene da dubitare che si tratti di lei.
Nelle fotografie del cadavere, ritrovato dopo 40 giorni in grave stato di putrefazione, si vedono intorno ai polsi i segni tipici di una corda stretta con forza, nonostante Michele Misseri, lo zio, non abbia mai parlato di corde. E della cotoletta di pollo fritta, mangiata da Sarah poco prima di uscire da casa, come raccontato e confermato più volte dalla mamma Concetta Serrano, non c’è la minima traccia nello stomaco della ragazza. Come se un «cordon bleu» potesse essere digerito in mezz’ora. Sono solo due dei particolari, abbastanza macroscopici, che dovrebbero far dubitare che quel corpo esaminato dai medici legali nominati dalla procura di Taranto sia davvero quello di Sarah.
E anche qui, le due condannate per l’omicidio, la cugina Sabrina Misseri e la zia Cosima, si dicono totalmente innocenti, nonostante la sentenza definitiva della Cassazione arrivata lo scorso anno abbia confermato gli ergastoli. Il giudicato è sacro, per carità, ma gli errori sono errori, le incongruenze sono incongruenze e le piste abbandonate nei primi giorni dell’inchiesta a volte si scopre solo a distanza di anni che erano quelle giuste. Anche se chiunque, avvocato o investigatore, si oppone alla strada imboccata dall’inchiesta ufficiale, spesso finisce indagato per depistaggio.
La consulenza del medico legale Luigi Strada, professore di Bari, eseguita per la procura di Taranto, viene depositata l’11 novembre 2010 e colpisce per la sua stringatezza: appena otto pagine, fotografie comprese. L’autopsia era stata eseguita il 7 ottobre, su quel corpo e nella perizia si legge: «Trattasi di soggetto di età femminile dell’apparente età di 15-16 anni, in avanzato stato di putrefazione». Del resto era stato trovato in un pozzo pieno d’acqua 40 giorni dopo la scomparsa di Sarah, su indicazione dello zio Michele Misseri, che verrà poi condannato a 8 anni di reclusione per «soppressione di cadavere» e, proprio in questi giorni, ad ulteriori tre anni in seguito a una denuncia per calunnia e diffamazione.
La prima anomalia che balza agli occhi è che nelle foto a colori riportate nell’autopsia si vedono lividi evidenti su entrambe le braccia e dei segni intorno ai polsi che non sembrano aver a che fare con i classici fenomeni di putrefazione, ma sembrano richiamare l’uso di una o più corde. Si tratta di un particolare che però entra nettamente in contrasto con tutte le versioni rese in interrogatorio e al processo da Michele Misseri sul modo in cui sarebbe stato consumato l’omicidio e su come sarebbe stato poi occultato il cadavere. Versioni in cui si parla al massimo di una cintura intorno al collo, ma mai di corde ai polsi. In particolare, per restare ai racconti dell’agricoltore di Avetrana fatti ai pm prima dell’autopsia, ovvero in possesso del medico legale, c’è una prima versione che parla di Sarah che scende in garage mentre lo zio sta riparando il trattore, lo «stuzzica ai fianchi», e mentre lei si gira di spalle per andare via, Misseri prende una fune che stava sul trattore e la strangola. Poi l’uomo corregge i propri ricordi e il 25 ottobre 2010 racconta «di aver toccato Sarah» (un particolare che aveva sempre negato), di essersi preso per risposta un calcio dalla nipote e di averla quindi soffocata con la «solita» corda del trattore. Al processo di primo grado, nell’udienza del 3 luglio 2012, il medico legale Luigi Strada dirà che Sarah «fu strangolata con una cintura larga circa due centimetri e mezzo che ha lasciato un solco sul collo». E che la morte «sopraggiunse in due-tre minuti per asfissia». Ma le sentenze affermano che sono state Sabrina e la madre Cosima a stringere quella cintura. Resta il macroscopico dubbio che se davvero la nipote quindicenne è stata legata per i polsi con delle corde, come paiono dire quei vistosi lividi gialli ai quali l’autopsia non dedica nemmeno una riga, allora cambia completamente la dinamica del delitto. A meno che quel corpo su cui è stato condotto l’esame non sia il corpo di qualcun altro. E in effetti la seconda stranezza dell’inchiesta riguarda l’identificazione del cadavere trovato nel pozzo, in condizioni irriconoscibili. Da un lato i familiari di Sarah non hanno mai effettuato il riconoscimento del cadavere, dall’altro non hanno mai chiesto l’esame del Dna perché hanno sempre dato per scontato che si trattasse di Sarah e basta. Eppure questa superficialità è strana, o forse è frutto di ignoranza e cattivi consigli, perché i risultati dell’autopsia contrastano con quanto ha sempre dichiarato mamma Concetta sul veloce pranzo consumato da sua figlia, ovvero un «cordon bleu». Non proprio un pasto di facile digeribilità. Ma nell’esame medico si parla di contenuti gastrici che consistono solamente in «20 cc di liquido grigiastro». Sentito al processo di primo grado, nell’udienza del 3 luglio 2012, il professor Strada l’ha spiegata così: «L’acido cloridico può aver disgregato il cibo assunto da Sarah il giorno dell’omicidio. Il cordon bleu ha un peso di circa 120 grammi, ma può essere stato tranquillamente assorbito». In appena mezz’ora, il tempo che passa da quando la ragazza esce di casa e quando viene assassinata? O si deve anticipare l’ora del delitto di due ore, oppure quei liquidi gastrici sono di qualcun altro.
Colpisce anche che il 26 novembre del 2010, uno degli avvocati difensori di Sabrina Misseri sottolinei in televisione, a Quarto Grado, come manchi la certezza assoluta sull’identificazione della vittima. E che pochi giorni dopo, la procura di Taranto decida improvvisamente di comparare il Dna di Concetta Serrano con quello della vittima, «al fine di stabilirne l’eventuale rapporto di filiazione poiché in sede di ricognizione la Serrano non è stata in grado di riconoscere la salma, come appartenuta in vita alla di lei figlia Scazzi Sarah». Quindi c’era un grosso problema nell’inchiesta: non si era certi di aver trovato il cadavere della vittima del reato. Ma agli atti dei tre processi non risultano depositati i risultati delle perizie del Ris dei carabinieri sul Dna e nella chiusura delle indagini non se ne trova traccia. Non solo, ma né la difesa né l’accusa hanno mai sollecitato il deposito della perizia che dovrebbe confermare che il corpo fatto trovare da Michele Misseri sia con certezza quello della nipote. A questa autopsia, che presenta tanti interrogativi, hanno lavorato anche altri operatori sanitari, ma nessuno di loro è mai stato ascoltato nei processi. Ricapitoliamo: nel «giallo di Avetrana», tra corde e cinture, ci sono incertezze sull’arma del delitto e sulle modalità della sua esecuzione. C’è il corpo in decomposizione di una ragazza che ha saltato il pranzo e, forse, non è neanche quello che si ipotizza. Fin da questo inizio, la storia ha troppe ombre.
(Articolo pubblicato nel n° 48 di Panorama in edicola dal 14 novembre 2018)