La difesa di Trump sull'Impeachment
Al via il processo al Senato. L'avv. di Trump, Dershowitz a Panorama.it: "L'abuso di potere non è materia di impeachment"
Il terzo processo di impeachment presidenziale al Senato della storia americana che vede sul banco degli imputati Doland Trump, sta per entrare nel vivo. Dopo le cerimonie inaugurali di giovedì scorso, martedì avranno inizio i dibattimenti e, sotto questo aspetto, si annuncia già battaglia dura sulla questione della convocazione di nuovi testimoni. I democratici stanno infatti compattamente chiedendo che vengano ascoltati ulteriori soggetti, rispetto a quelli che hanno già deposto alla Camera nel corso dell’inchiesta per impeachment nei mesi autunnali. In particolare, l’asinello vorrebbe che fossero interrogati alcuni funzionari ed ex funzionari della Casa Bianca, che disporrebbero di informazioni significative sulla questione ucraina: tra costoro, compare il nome dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, silurato lo scorso settembre, dopo numerose divergenze che aveva avuto con Donald Trump.
I repubblicani, dal canto loro, non sono totalmente compatti sulla questione. Se la maggior parte (a cominciare dal leader della maggioranza al Senato, Mitch McConnell) si dice contraria a convocare ulteriori testimoni, è pur vero che qualche voce dissenziente potrebbe levarsi. In particolare, è possibile che qualche repubblicano tendenzialmente ostile al presidente (come il senatore dello Utah, Mitt Romney, o la senatrice del Maine, Susan Collins) possa decidere di rompere con la linea della propria compagine. Il punto è che, per ottenere la convocazione dei testimoni, è necessaria la maggioranza semplice, cioè almeno cinquantuno voti: ne consegue che, per riuscire nel loro intento, i democratici dovrebbero convincere – come sottolineato di recente dal New York Times – almeno quattro repubblicani a sostenere la propria linea. Un’eventualità forse difficile ma non del tutto impossibile. Va da sé che il tema risulterà dirimente. Se nuovi testimoni non verranno convocati, è plausibile che si terrà un processo abbastanza breve (un paio di settimane circa) e senza episodi eclatanti. Di contro, dovessero spuntarla i democratici, scoppierebbe una guerra totale.
Nel momento in cui infatti l’asinello chiamasse in audizione figure ostili a Trump (come Bolton), i repubblicani reagirebbero con ogni probabilità convocando Hunter Biden, il figlio dell’attuale candidato alla nomination democratica, Joe Biden. Quello che ne seguirebbe, sarebbe uno scontro senza esclusione di colpi: un caos particolarmente politicizzato e con l’incognita della tempistica. Un procedimento che assumesse simili caratteristiche potrebbe infatti durare molto tempo. Si pensi, per esempio, che il processo al Senato contro Bill Clinton nel 1999 iniziò il 7 gennaio e si concluse il 12 febbraio. Il punto è che, qualora l’attuale iter processuale dovesse sforare l’inizio di febbraio, rischierebbe di produrre pesantissime ripercussioni sulle primarie democratiche: non dimentichiamo infatti che il 3 febbraio si terrà il caucus dell’Iowa, mentre l’11 dello stesso mese avranno luogo le primarie del New Hampshire. Si tratta di due appuntamenti elettorali fondamentali per arrivare alla conquista della nomination democratica. Il problema è che ben quattro degli attuali candidati – Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Amy Klobuchar e Michael Bennet – risultino senatori. E che, proprio per questo, potrebbero essere costretti a starsene chiusi alla camera alta a causa del processo, mentre fuori si vota e infuria la campagna elettorale. Ne conseguirebbe un danno non da poco: non sarà del resto un caso che, giovedì scorso, Sanders da Washington abbia detto che preferirebbe starsene in Iowa. Tra l’altro, impatti imprevedibili sulle primarie democratiche potrebbero sorgere anche da un’eventuale convocazione di Hunter Biden come testimone al processo al Senato: non dimentichiamo che, secondo i sondaggi, il padre sia attualmente front runner dello schieramento dem a livello nazionale. E un coinvolgimento pesante di suo figlio nella vicenda potrebbe gravare come una seria ipoteca sulla sua candidatura.
Trump, dal canto suo, non è detto che sia troppo spaventato da eventuali tempi lunghi. Per quanto da settimane la Casa Bianca dichiari di auspicare un processo breve, nella realtà la situazione potrebbe rivelarsi differente. Non è un mistero che il presidente americano nutra in cuor suo il desiderio di approntare una difesa articolata e – possibilmente – plateale. In secondo luogo, Trump non può non aver chiaro che – come detto – eventuali lungaggini possano rivelarsi deleterie per le primarie democratiche: è dunque anche per questo che spera probabilmente in un simile scenario.
Intanto le strategie delle due parti sono abbastanza chiare. I democratici puntano a sostenere che Trump abbia abusato del suo potere, ricattando il presidente ucraino Volodymr Zelensky, per danneggiare la candidatura di Biden sul fronte avverso. Non dimentichiamo che, lo scorso 18 dicembre, la Camera abbia messo il presidente in stato d’accusa con le imputazioni di abuso di potere e ostruzione al Congresso. In questo senso, i democratici stanno cavalcando quanto affermato in televisione, pochi giorni fa, da Lev Parnas, ex collaboratore di Rudy Giuliani, secondo cui Trump avrebbe “esattamente” saputo che la Casa Bianca stesse esercitando pressioni su Kiev per aprire un’indagine sui Biden. Sotto questo aspetto, non dimentichiamo che le audizioni avvenute alla Camera in autunno non abbiano provato in modo inconfutabile alcun coinvolgimento diretto del presidente: ragion per cui i democratici stanno adesso puntando fortemente sulle affermazioni di Parnas. I repubblicani hanno ribattuto, mettendo in discussione la credibilità del legale (attualmente sotto inchiesta per finanziamenti elettorali illeciti) e hanno puntato soprattutto il dito sulla tempistica della sua intervista televisiva, avvenuta poche ore prima dell’inizio del processo al Senato. Ulteriore punto controverso riguarda il fatto che il Government Accountability Office (la cui autorità si limita all'emissione di pareri legali non vincolanti) ha sostenuto che la Casa Bianca abbia aggirato indebitamente il Congresso, congelando gli aiuti per Kiev la scorsa estate. Il punto è che – come ravvisato dal Wall Street Journal – quei fondi fossero stati stanziati per l’anno fiscale 2018, che scadeva il 30 settembre del 2019. Rientrava invece nella discrezione della Casa Bianca decidere quando sbloccare il denaro nell’arco dell’anno: circostanza avvenuta il 12 di settembre e quindi prima del termine ultimo consentito.
Al di là di queste questioni, la linea difensiva del presidente americano è stata principalmente approntata dal noto avvocato, Alan Dershowitz: elettore democratico e sostenitore di Clinton nel corso del processo del 1999. Interpellato da Panorama, il legale ha dichiarato: “L’abuso di potere è un reato non meritevole di impeachment, perché è troppo vago e comprende qualsiasi cosa. Metà dei nostri presidenti sono stati accusati di aver abusato del proprio potere. Per questa ragione, i padri fondatori non hanno incluso l’abuso di potere tra i criteri per l’impeachment”. In sostanza, la linea di Dershowitz è che, anche qualora le pressioni di cui Trump è accusato venissero provate in modo irrefutabile, la sua condotta non sarebbe comunque meritevole di un impeachment. E, nel momento in cui questa tesi passasse, la necessità di convocare ulteriori testimoni non avrebbe più ragion d’essere. Tra l’altro, è convinzione di Dershowitz, che un procedimento di messa in stato d’accusa possa aver luogo solo in presenza di reati previsti dal codice penale: una circostanza che, nel caso di Trump, (almeno al momento) non si dà. In questo senso, l’avvocato si rifà al precedente dell’ex giudice, Benjamin Curtis, che prese parte al team difensivo di Andrew Johnson nell’impeachment del 1868. Costui sostenne che – per la messa in stato d’accusa – si debba richiedere un atto penalmente rilevante da parte del presidente. Non dimentichiamo, del resto, che – quando prese le difese di Clinton nel 1999 – Dershowitz affermò che l’allora inquilino della Casa Bianca, essendosi macchiato di falsa testimonianza, non dovesse essere sottoposto a impeachment: quel reato – argomentò il legale – risultava di bassa caratura, laddove la Costituzione prescrive che, per la messa in stato d’accusa, siano necessari “alti crimini e delitti”.
Infine, al di là delle linee contrastanti, un’ultima incognita riguarda il ruolo che deciderà di assumere il giudice capo della Corte Suprema, John Roberts, che dovrà presiedere il processo. La questione non è di poco conto. Anche – e soprattutto – alla luce del fatto che Trump e Roberts in passato abbiano avuto qualche battibecco. Nel 2012, il primo criticò il secondo per aver salvato la riforma sanitaria di Obama, mentre – nel 2018 – i due ebbero delle frizioni, quando il presidente americano sostenne che parte dei giudici fossero politicizzati. Non è per il momento chiaro se questi episodi possano avere delle ripercussioni sul processo. In base alle regole per i processi di impeachment al Senato redatte nel 1986, al giudice capo viene conferito un discreto potere su “prove e testimonianze”. Bisognerà quindi capire che tipo di linea vorrà tenere Roberts. Potrebbe scegliere un approccio maggiormente “interventista” oppure attenersi al precedente di William Rehnquist, che si trovò a presiedere il processo contro Clinton nel 1999, optando per un atteggiamento particolarmente riservato. Insomma, i punti interrogativi restano tanti. Al momento, risulta comunque improbabile una condanna per Trump, visto che un simile scenario richiederebbe due terzi dei voti: un quorum altissimo, che in nessun caso di impeachment presidenziale è finora mai stato raggiunto. A maggior ragione se si considera il fatto che il Senato sia oggi a maggioranza repubblicana e che – tranne qualche dissidente – l’elefantino appaia abbastanza compatto.