Ecco perché l'economia non è una scienza esatta
Al Forum di Davos si è discusso di un cambio di prospettiva: ripensare al ruolo dell'economia e all'approccio razionale ai mercati finanziari, una vera e propria illusione
Fabrizio Pezzani è Professore ordinario di programmazione e controllo presso l'Università Bocconi di Milano
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Nei giorni scorsi si è svolto a Davos l’annuale incontro sui temi globali che da anni ha come primo punto l’economia e la finanza, il loro trend e le possibili aspettative di crescita. Il titolo dell’incontro di quest’anno era però più ampio e offriva una prospettiva diversa della crisi in corso: “Il rimodellamento del mondo:conseguenze per la società, la politica ed il business“. Negli stessi giorni in cui i manager ed i banchieri si riunivano a Davos veniva dato l’annuncio dell’incontro a Roma in marzo tra Obama ed il Papa Francesco – sarà a Gerusalemme nello stesso periodo - il cui fine è confrontarsi su un comune e drammatico problema rappresentato dalla crescente povertà mondiale che, anche negli Usa, sta minando la tenuta dei sistemi sociali. Insomma due diverse prospettive di vedere i problemi globali con un ordine di priorità totalmente differente: il tema della disuguaglianza e del rischio di implosione delle società sembra perennemente rimanere a Davos “il convitato di pietra“ ed una sorta di “problema collaterale“ allo sviluppo dell’economia.
Ma qui sta il punto di svolta della Storia che sta girando pagina e ci mette di fronte al vero problema di fondo dei nostri tempi: la necessità di cambiare quel paradigma culturale che ci ha portato al dissesto prima ancora sociale e morale che economico. La fine di un paradigma culturale che lasci posto a un altro più in grado di capire la Storia, rappresenta una rivoluzione. Ma in fondo è questo il ciclo di vita delle società che si ripete nel tempo e che segue inesorabile le leggi universali che dettano la dinamica storica. Einstein diceva: “Le nuove idee nascono come eresie e muoiono come dogmi“ ed è quello che sta succedendo all’Economia assunta come verità incontrovertibile e come motore di sviluppo unico del benessere sociale.
Il fallimento di questo modello ci è davanti agli occhi con tutta la sua gravità, un modello culturale che avrebbe dovuto assicurare un benessere diffuso ha generato tutto il contrario: una concentrazione di ricchezza senza precedenti nella storia, una drammatica povertà a tutti i livelli, un degrado morale e spirituale, un livello di individualismo e di conflittualità permanente che ha disgregato il sistema sociale a partire dalla famiglia e lasciato i giovani senza prospettive future sia in termini di valori che economiche.
Il convitato di pietra a Davos però sta mostrando la sua faccia agli operatori che sembrano mostrare fiducia nell’aumento del fatturato delle loro aziende; ma lo sviluppo dell’economia, se abbinato ad un processo di concentrazione della stessa, come si evince dai fatti, ha un’utilità negativa. Ripensare al ruolo dell’economia come motore di sviluppo sociale significa però porre in discussione l’ipotesi che sta guidando gli studi e l’Accademia da ormai 30 anni: l’economia non è una scienza esatta e l’approccio razionale ai mercati finanziari è stata un’illusione fondata su un’ipotesi comoda, opportunistica ma infondata.
Gli uomini non sono uguali e la loro dimensione emozionale è parte integrante nelle loro scelte in ambito economico e finanziario e le influenza. Ma se l’economia reale non è solo razionale allo stesso modo non lo è la finanza che dipende dall’economia reale e che ne è diventata un sistema parassitario. L’ipotesi della razionalità dei mercati e della loro efficienza si basa sul fatto che "a parità di informazioni gli operatori decidono allo stesso modo" e quindi è possibile una loro analisi con strumenti esclusivamente desunti dalle scienze esatte. Ma l’ipotesi è infondata perché l’efficienza dei mercati dipende dal livello di simmetria informativa tra gli operatori e questo è tanto più alto quanto più ci si avvicina ad un modello ideale e mitologico di concorrenza perfetta e tanto più basso quando si è in una situazione di oligopolio-monopoli com’è l’attuale.
È l’ipotesi irrealistica da cui si parte che non viene messa in discussione, in altri termini è come se, per paradosso, si volesse costruire un modello di dinamica fisica partendo dall’ipotesi che la forza di gravità non esista. Inoltre la simmetria informativa prevista dall’ipotesi è incompatibile con un modello culturale che pone come fine la massimizzazione del risultato personale a scapito degli altri; in questo modo chi detiene il potere di controllo dei mercati non può accettare di ridurre la sua posizione di dominio perché sarebbe contrario al fine del sistema. La concentrazione di ricchezza ne è una naturale conseguenza e il degrado sociale l’evidenza drammatica.
La crisi dipende da uomini e non da eventi naturali ed imprevedibili, che si sono spesso laureati nelle università migliori; che responsabilità hanno questi uomini? Ma che responsabilità hanno i loro maestri ricoperti da premi Nobel verso il sistema sociale che hanno distrutto? Non è giunta l’ora di aprire un dibattito serio sulle responsabilità culturali, morali e sociali verso l’Accademia ed il sistema di relazioni tossiche con la finanza e la politica: il processo all’Economia, alla Finanza e all’Accademia?
Prima che il convitato di pietra presenti il conto sarà bene, tutti insieme, riflettere sul cambio di passo che la storia ci richiede a partire anche dall’approccio ai nostri studi della società e dell’economia e dall’individuazione delle correlate responsabilità.