Egitto: gli attentati contro i copti e l’avanzata dell'Isis
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Egitto: gli attentati contro i copti e l’avanzata dell'Isis

I recenti attacchi confermano l’incapacità di Al Sisi di contenere l’espansione del Califfato. E ora si teme per l’arrivo di Papa Francesco

Il doppio attentato con cui l'Isis ha seminato il terrore in Egitto è la conferma dell’accresciuta forza del Califfato in questo Paese. Wilayat Sinai (Provincia del Sinai), filiale dello Stato Islamico in Egitto rappresenta infatti ormai a tutti gli effetti una minaccia nazionale a cui il presidente Abdel Fattah Al Sisi non sembra essere in grado di porre un argine.

 
Gli attacchi arrivano a tre settimane dal viaggio di Papa Francesco in Egitto, in programma il 28 e 29 aprile, quando il Pontefice incontrerà il patriarca copto Tawadros II, il grande imam di al-Azhar e Ahmed al Tayyib e il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi.

Proprio sulle prossime mosse di Al Sisi sono ora concentrate le attenzioni e rafforzato i controlli nei luoghi considerati a rischio di attentati: le chiese dei copti cristiani, ma anche le sedi governative e le ambasciate dei Paesi occidentali.
 
Perché l'Isis colpisce i cristiani copti
Gli attentati di Tanta e Alessandria arrivano a quattro mesi da un altro violento attacco contro la minoranza cristiana egiziana: domenica 11 dicembre 2016, durante la messa un attentatore kamikaze si era fatto esplodere in una cappella adiacente alla cattedrale di San Marco, considerato il più grande luogo di culto dei copti al Cairo, sede del patriarca Teodoro II.

I morti allora furono 25 e quasi 50 i feriti. In un video trasmesso subito dopo l’attentato, l'Isis aveva minacciato nuovi attentati contro la minoranza cristiana promettendo che avrebbe ucciso chiunque avesse collaborato con le forze di sicurezza egiziane.

I cristiani copti d’Egitto rappresentano la più grande e antica comunità cristiana di tutto il Nord Africa e il Medio Oriente. Dopo essere stati tollerati e integrati per secoli nella società egiziana, all’interno della quale per tradizione rappresentano uno dei più evoluti segmenti professionali e culturali, i copti sono stati oggetto fin dall’inizio della primavera araba del 2011 di attentati e aggressioni da parte degli estremisti islamici.

Pochi giorni prima dell’inizio dei disordini che portarono alla caduta del governo dell’ex presidente Hosni Mubarak, nel giorno di Capodanno del 2011, fu colpita una chiesa copta di Alessandria (21 fedeli uccisi). Da allora la situazione dei copti egiziani si è fatta sempre più difficile, specialmente tra il 2012 e il 2013 durante il governo di Mohammed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani. In quel lasso di tempo oltre 100.000 cristiani sono stati costretti a un esilio forzato principalmente verso il Canada e l’Australia.

L’emigrazione dei copti ha avuto un effetto negativo sull’economia egiziana per la fuga di imprenditori, medici e avvocati che costituivano uno dei pilastri della borghesia produttiva del Paese. Per questi motivi la comunità copta, che ha salutato con favore il golpe del luglio del 2013 con cui il generale Al Sisi ha deposto Morsi, è considerata una delle pietre fondanti dell’attuale governo del Cairo e, come tale, resta uno dei bersagli privilegiati del terrorismo religioso che ancora insanguina l’Egitto.

Il radicamento dello Stato Islamico nella Penisola del Sinai ha però esposto i copti a ulteriori rischi. Oltre alle esplosioni nelle chiese, l’episodio simbolo risale al febbraio del 2015, quando in Libia 21 lavoratori egiziani di fede cristiana furono le prime vittime delle spettacolari esecuzioni eseguite da ISIS. Gli operai vennero condotti sulla spiaggia di Sirte, sgozzati e decapitati. Il macabro spettacolo fu filmato in diretta e poi diffuso sui siti islamisti di tutto il mondo a scopi propagandistici.

Da metà febbraio di quest’anno centinaia di famiglie cristiane sono iniziate a fuggire da Al Arish, capoluogo del governatorato egiziano del Sinai del Nord. A innescare la nuova diaspora, destinata ad assumere proporzioni sempre maggiori, sono stati i ripetuti attacchi di Isis. Nel Nord del Sinai, regione confinante con Israele e la Striscia di Gaza, nell’ultimo mese le persone barbaramente uccise da miliziani jihadisti sono state sette. Esecuzioni sommarie, sparatorie in mezzo alla folla, case devastate e date alle fiamme e ad Al Arish, addirittura, un giovane arso vivo e poi scaricato sul ciglio di una strada insieme al cadavere del padre.

La forza dell'Isis in Egitto
Oltre che un segnale di sfida indirizzato a Papa Francesco, ai "nemici crociati" e a quanti nel mondo islamico vogliono favorire un dialogo con i cristiani, con gli attentati di Tanta e Alessandria, l'Isis ha rimarcato la propria forza in Egitto, ormai non più circoscritta alla sola Penisola del Sinai.

Di fronte a questa interminabile striscia di attentati, la domanda che molti si pongono, e a cui né le forze di sicurezza egiziane né analisti ed esperti dell’area hanno saputo dare risposte certe, è qual è l’entità – numerica e militare – della minaccia dello Stato Islamico in Egitto.

Wilayat Sinai, nota fino al novembre del 2014 come Ansar Beyt al-Maqdis (formazione che era nata nel 2011 durante la rivoluzione che portò alla caduta dell’ex presidente Hosni Mubarak), ad oggi disporrebbe di una forza militare non superiore alle 2 mila unità sotto la guida del religioso egiziano Abu Osama al-Masry, formatosi all’Università Al Azhar del Cairo. Si tratta però evidentemente di una stima sottodimensionata, considerata la portata degli attacchi compiuti negli ultimi due anni dal gruppo jihadista, indirizzati inizialmente contro le istituzioni e le forze di sicurezza egiziane ma concentratisi, da qualche mese a questa parte, contro civili e contro le minoranze religiose come quella dei copti.

L’affiliazione all'Isis ha permesso ai jihadisti del Sinai di compiere un enorme balzo in avanti, dovuto non tanto a rinforzi o rifornimenti di armi ricevuti dalle roccaforti del Califfato in Siria e Iraq, quanto piuttosto dai benefici che Wilayat Sinai ha potuto trarre da questa operazione in termini di immagine. L’utilizzo del brand dello Stato Islamico ha infatti favorito l’afflusso di centinaia di miliziani che continuano ad arrivare nel Sinai eludendo i controlli al confine tra l’Egitto e i territori palestinesi.

Per radicarsi in questo territorio Wilayat Sinai ha utilizzato un modus operandi proprio di altri gruppi jihadisti affiliati allo Stato Islamico operativi tra Nord Africa (Libia, Algeria e Tunisia), Medio Oriente (Yemen), Asia Centrale (Afghanistan) e del Sud-Est asiatico (soprattutto nelle Filippine e in Indonesia).

La formazione di Abu Osama al-Masry ha puntato sulla ricerca di alleanze con tribù e gruppi islamisti locali, sfruttando a proprio favore il risentimento dei Fratelli Musulmani nei confronti dei militari, amplificatosi con le uccisioni e gli arresti in massa seguiti al golpe che nel luglio del 2013 ha portato alla destituzione di Mohammed Morsi.

Al contempo, la condivisione del proprio marchio con i jihadisti del Sinai ha avuto degli effetti benefici anche per il Califfato, principalmente per due motivi. Il primo è che ponendo il proprio cappello su Wilayat Sinai lo Stato Islamico si è potuto posizionare nel cuore del Mediterraneo, in un punto di congiuntura di altissimo valore strategico tra i teatri di tensione del Nord Africa e i territori palestinesi.

Inoltre, l’operazione ha fruttato molto all'Isis anche in termini di propaganda perché ha issato l’organizzazione di Abu Bakr Al Baghdadi a unica vera forza di contrapposizione nei confronti di un regime militare che sta reprimendo con la violenza centinaia di migliaia di musulmani con il sostegno trasversale della comunità internazionale.

Nell’insieme questi fattori stanno rafforzando l’immagine globale dello Stato Islamico, permettendo ad Al Baghdadi di tenere vivo un fronte alternativo a quello siro-iracheno.

KHALED DESOUKI/AFP/Getty Images
Cristiani copti celebrano messa tra le ceneri della cappella bruciata dai musulmani a Ismailia a 300 km dal Cairo - 24 luglio 2016

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Rocco Bellantone