L’Egitto visto da casa Nasser
I giorni di piazza Tahrir, la lotta per liberarsi dai Fratelli musulmani e la voglia di stabilità. Perché il paese ha scelto Al Sisi nelle parole del figlio del padre della patria
Come si sta in Egitto oggi? Chiedetelo ad Abdel Hakim Nasser. Il cognome vi suonerà familiare: è il figlio minore di Gamal Abdel Nasser*, il presidente che ha trasformato l’ex colonia britannica nell’Egitto moderno.
La sua storia personale riflette quella del suo paese: ingegnere, 58 anni, ha passato gli ultimi anni del governo di Hosni Mubarak lontano dalla politica, dedicandosi alla sua ditta di costruzioni in attesa del crollo del regime. Sceso in strada nei giorni della Primavera araba, non sapeva che sarebbe tornato, due anni dopo, nella stessa piazza Tahrir, a spendersi per far cadere Mohamed Morsi, il nuovo presidente, espressione dei Fratelli musulmani.
"Aspettavo la caduta di Mubarak dal 2004, quando i piani per cedere il paese a suo figlio Gamal sono diventati ambiziosi e inaccettabili" dice a Panorama.it Nasser: Che da quel momento ha ripetuto ai miei amici: "Siamo una bomba che sta per esplodere".
Entrare in casa sua per un’intervista è un fatto inusuale: come ogni famiglia che conta, i Nasser tengono un profilo basso, poco appariscente. Rinunciano alla riservatezza solo nei momenti critici, quelli in cui un cognome come il loro può fare la differenza.
Perché è sceso in piazza Tahrir nel 2011?
Cosa fai quando odi qualcuno, ma non sei un killer? Aspetti. Poi un giorno vedi che un’auto lo sta per investire. Lo avvisi o taci? Tahrir è stato questo, una grande liberazione, la voce di un paese esausto.
A dare il colpo di grazia al regime di Mubarak, però, è stato l’esercito.
Sì, perché la rivolta aveva una gran furia, ma nessun leader. La gente ha fatto la rivoluzione e poi si è ritrovata comunque senza potere. I solo che contavano erano i militari. Hanno ascoltato la piazza e hanno costretto Mubarak a lasciare.
Dov’è finito l’entusiasmo di quei giorni?
Lo spirito di Tahrir è durato 18 giorni. Caduto Mubarak, siamo tornati a casa e la protesta si è frantumata in mille realtà particolari. Un anno dopo, quando siamo arrivati alle elezioni, l’unica fazione davvero organizzata e radicata nella società civile era quella dei Fratelli musulmani.
Ha votato per loro?
Avevo scelto Hamdeen Sabahi, che incarnava lo spirito di Tahrir. Ma è arrivato terzo al primo turno, perciò al voto finale la scelta era tra Ahmed Shafik, già premier sotto Mubarak, e Morsi. Mi sono detto: «Non starò in coda sotto il sole per scegliere tra due opzioni pessime».
Morsi ha vinto perché non c’era scelta?
Non solo. Facciamo un lungo passo indietro: prima delle riforme condotte da mio padre negli Anni 50, i Fratelli musulmani erano forti grazie alla loro catena assistenzialista: se eri povero ti garantivano ogni tipo di aiuto. Con le riforme di mio padre (scuole, ospedali, redistribuzione della terra), la Fratellanza aveva perso attrattiva. Se l’ospedale pubblico funziona, perché andare dal medico della Fratellanza? Col tempo, però, i Fratelli sono tornati nella società. Sono avanzati, sotto traccia, per la ragione per cui erano forti un tempo: la classe media è tornata a erodersi e quando c’è un grande divario tra ricchi e poveri i Fratelli si insinuano e legano a sé i poveri a cui offrono aiuto.
Cos’ha fatto quando ha vinto Morsi?
Ho guardato alla parte piena del bicchiere. Ma dopo pochi giorni ho ricevuto avvertimenti personali, ho visto i cristiani esclusi dalla scrittura della nuova Costituzione. Ho saputo di egiziani uccisi perché sciiti, una vera follia, per una società come la nostra. Perciò ho preso decisioni difficili.
È scappato?
No, ma mi sono tirato fuori da tutto, ho scelto di non parlare. Ho congelato i lavori della mia azienda. Ho mandato i miei familiari all’estero, perché non volevo che i Fratelli li rapissero per ricattarmi.
Quand’è sceso in piazza contro Morsi?
Mi sono dato da fare non appena ho visto spuntare il movimento anti Morsi Tamarod (rivolta, ndr). Dovevo farlo.
Quando lei parlava, la piazza urlava: Nasser! Nasser! In quei giorni ha detto: "Se la gente mi vuole, sono pronto". Perché poi ha cambiato idea?
La politica non è un lavoro, è una cosa che succede. E io non sono un altro Nasser, mio padre è stato un leader unico. Ho solo capito che dovevo aiutare questa rivolta, che chiedeva la deposizione di Morsi ed elezioni anticipate. Ho passato settimane in piazza, ho visto il movimento esplodere con entusiasmo. Non lo dimenticherò mai: guidavo un corteo di otto chilometri verso il palazzo presidenziale quando ho visto altri cortei, grossi come il mio, unirsi a noi da altre strade. È stata la più grande protesta della storia egiziana. Al Sisi, allora a capo dell’esercito, ci ha ascoltati e ha imposto un ultimatum a Morsi.
Non tutti condivono il suo entusiasmo. In molti parlano di colpo di stato.
Ha mai visto un colpo di stato militare fatto da milioni di persone in piazza in tutto il paese? I golpe si preparano in segreto.
I paesi europei e gli Stati Uniti hanno snobbato la cerimonia d’insediamento di Al Sisi.
Capisco il loro dispiacere. Ma guardi cosa resta dell’Iraq, dell’Afghanistan o della Libia dopo il loro intervento. Il popolo egiziano non vuole lasciare una tradizione millenaria a dei fanatici musulmani.
Ma così è finita nelle mani di un ex generale e dirigente dell’intelligence.
Anche Israele ha avuto leader politici che venivano dai vertici dell’esercito o dell’intelligence, come i primi ministri Ehud Barak e Ariel Sharon. Non mi sembra che la cosa sia mai stata un problema per voi.
Diventa un problema quando si vedono 1.200 Fratelli musulmani condannati a morte.
È stata applicata la legge: in Egitto l’imputato che non si presenta al processo viene condannato con la massima pena. Per l’omicidio c’è la pena capitale, come negli Stati Uniti. Se il condannato si costituisce o viene arrestato si rifà il processo.
Non potrà negare un controllo ossessivo della sicurezza.
La linea tra la libertà e il caos è molto sottile e ci sono momenti in cui l’ordine va imposto. Ero a Londra durante le rivolte del 2011, ho visto quanto è stata dura la polizia inglese nell’imporre le ragioni della legge.
Crede ai risultati delle ultime elezioni, vinte da Al Sisi con il 97 per cento dei voti?
Sì. Al Sisi ha conquistato il cuore della gente: un anno fa ha visto che eravamo delusi da Morsi e ha capito che era il momento di farsi portatore del volere popolare. L’Egitto crede nell’esercito come istituzione, tutti hanno almeno un parente arruolato.
Lei investirebbe in Egitto ora?
Eccome. Sceglierei il solare o l’agricoltura. Ci sono grandi opportunità nella logistica: io le sto esplorando personalmente, insieme all’italiana Bcube.
E ci verrebbe in vacanza?
Di sicuro. Ci verrei adesso, perché l’anno prossimo sarà più costoso. Giusto ieri a un mio amico americano dicevo: hai paura di venire qui e vivi in una città con un tasso di criminalità come Miami? È più facile che un pazzo spari in una scuola americana piuttosto che in una egiziana.
*Chi è stato Gamal Abdel Nasser:
Nel 1952, a 34 anni, è il volto del colpo di stato militare che costringe il re filobritannico Faruk all’esilio. Dà il via a riforme di stampo socialista: limita la proprietà agraria, redistribuisce le terre, avvia grandi opere pubbliche. Il progetto più imponente è la diga di Assuan sul Nilo. Nazionalizza il Canale di Suez, gestito dagli inglesi, scontrandosi con Inghilterra, Francia e Israele. Perde la guerra, ma mantiene Suez. Fallisce nel suo sogno panarabo (una grande Repubblica araba unita) e nella Guerra dei sei giorni (1967), dove viene sconfitto da Israele. Muore il 28 settembre 1970.