Emanuela Orlandi e il doppio mistero delle ossa
I resti di donna, appena scoperti sotto i pavimenti della Nunziatura del Vaticano, ricordano la scomparsa degli scheletri nella cripta di Sant'Apollinare, nel 2012. Quando si scavò e...
Ossa che riaffiorano all’improvviso e ossa che spariscono misteriosamente, forse per sempre. L’incredibile vicenda dei resti di donna rivenuti il 30 ottobre sotto i pavimenti della Nunziatura del Vaticano in via Po, a Roma, riapre il caso di Emanuela Orlandi, la figlia di un messo pontificio e residente in Vaticano che sparì il 22 giugno 1983 dopo una lezione di flauto traverso all’istituto Ludovico da Victoria, nel complesso immobiliare della basilica di Sant’Apollinare.
Con tre domande rimaste per 35 anni senza risposta: chi ha sequestrato Emanuela? Chi e perché l’ha uccisa? E chi ha manomesso ogni indagine aperta in tutti questi anni?
L’inchiesta è sempre stata soffocata non solo da silenzi omertosi, ma anche da autentici depistaggi, portati avanti da una variegata compagnia di giro tra mitomani, vecchi arnesi dei servizi segreti, calunniatori, depistatori professionisti. E proprio sulle ossa pende ancora uno degli interrogativi più emblematici di tutta la vicenda: dove sono finiti i 100-110 scheletri che si dovevano trovare proprio in quei sotterranei, ma che sono misteriosamente spariti?
2012, le ricerche sotto la basilica di Sant'Apollinare
Per capirne qualcosa di più, e per scoprirlo, bisogna tornare al 2012: quando si decise di cercare i resti di Emanuela sotto la basilica di Sant’Apollinare, ritenendo che Enrico De Pedis, detto «Renatino», cioè il presunto cassiere della banda della Magliana ucciso da incensurato e amico di ferro del rettore di Sant’Apollinare, fosse non solo sepolto proprio lì sotto, ma anche tra i sequestratori della ragazza che frequentava la stessa chiesa.
Siamo così nel maggio del 2012, quando gli agenti della polizia scientifica, armati di torce e guanti, scendono nei sotterranei di Sant’Apollinare. L’eco dei canti delle celebrazioni dalle navate in basilica dei numerari dell’Opus Dei, si fa via via più lontano: è appena percettibile quando i poliziotti scendono gli scalini che portano agli sterminati sotterranei. Gli inquirenti devono individuare rapidamente l’ossario segreto, per cercare il classico ago nel pagliaio: le ossa della povera Emanuela tra cunicoli, stanze murate e pozzi senza fondo. Insomma, un lavoro certosino. Si scopre che ossa e frammenti sono raccolti in casse di zinco accatastate lontano da occhi indiscreti: dietro pareti murate, in fondo a cunicoli e persino calate in pozzi neri.
L’attività degli agenti dura settimane ma si rivela, almeno apparentemente, proficua: nel corridoio che porta alla stanza con la tomba mausoleo di De Pedis, e sotto la cripta, denominata «Grotta dei Martiri», spuntano decine di ossa. In particolare, vengono ritrovate 89 cassette e un sacco nero con resti umani murati nel locale di fronte alla tomba di De Pedis, altre 240 nel pozzo sotto la pavimentazione della cripta.
In tutto, sono 409 le cassette che finiscono sui tavoli del laboratorio improvvisato sotto la basilica, dove gli agenti in tuta bianca lavorano fianco a fianco con la squadra della dottoressa Cristina Cattaneo, forse l’esperta più accreditata per datare corpi, ossa, estrarre Dna, e che ha seguito importanti storie di cronaca, come l’omicidio di Yara Gambirasio. Ma forse mai un caso così complicato.
Per individuare le casse di zinco, la polizia batte palmo a palmo tutta la basilica, partendo dai sottotetti, scoprendo locali nemmeno mappati nelle cartine catastali, per passare alle stanze che ospitano gli organi, sino a sgabuzzini ricavati vicino alle aule, come quello ispezionato vicino all’attuale aula 201: la coincidenza è interessante, perché la stanza si trova a pochi metri dal quarto piano del palazzo adiacente: proprio la vecchia sede dell’istituto Ludovico da Victoria, la scuola di musica dove Emanuela nel 1983 andava a lezione.
2003, la scomparsa di 110 scheletri
Per farsi aiutare in questo labirinto, la polizia interroga alcuni dipendenti e gli architetti che avevano seguito i lavori di ristrutturazione, dopo che nel 2002 erano stati progettate opere di risanamento dei sotterranei di Sant’Apollinare. Gli scavi, affidati con gara d’appalto alla ditta Castelli Re, erano partiti nel 2003. Tra i testimoni viene sentito Mario Pontesilli, dipendente della società Icar 99, la ditta incaricata inizialmente di recuperare le casse di zinco, e di raccogliere le ossa e i frammenti. In tutto, vengono così recuperate 52.188 ossa, da passare al vaglio del Dna per verificare se ci siano anche quelle di Emanuela Orlandi. Una gran parte sono ossa frammentate, imbrattate di terriccio e riposte in 349 casse di zinco, altre invece si presentano pulite e con residui molli, ritrovate in altre 44 casse e corrispondenti agli scheletri di 35 individui, mentre in 16 altre casse ancora si trovano ossa fratturate e inglobate in concrezioni biancastre.
Eppure è un lavoro incompleto, tale da determinare le «profonde riserve» della dottoressa Cattaneo, ben evidenziate nella sua consulenza consegnata agli inquirenti. Nella richiesta di archiviazione della Procura di Roma per l’indagine sull’omicidio di Emanuela, si legge che quelle riserve sono dovute «alla mancanza, stando alle testimonianze raccolte e in particolare quella di Matias T., di 100-110 scheletri appartenenti al gruppo ossa pulite».
In pratica, c’è il sospetto se non la certezza che «un cospicuo numero di scheletri» così prosegue il documento «sia stato rimosso in tempi diversi e comunque collocato in cassette poi non riposte in Sant’Apollinare». Di fronte a questa situazione, però, la Procura decide di non approfondire. Perché? «Occorre evidenziare come proprio la descrizione fatta nella consulenza della tipologia di ossa e di conservazione degli scheletri appartenenti a questo gruppo, rinvenuti in cassette che contenevano anche parti di vestiti e targhette, lascia ipotizzare che anche quelli eventualmente mancanti appartengano a tale tipologia e che siano pertanto datate».
La Procura però non è poi davvero così convinta che quei resti non vadano analizzati. Tanto che, almeno in una prima fase, cerca di informarsi se «nel corso dei lavori di risanamento vi fosse stato l’invio di cassette di zinco presso qualche altra struttura ma tale circostanza è stata esclusa». A questo punto, ci si trova in un vicolo cieco. E l’amara conclusione del documento firmato dal procuratore Giuseppe Pignatone è questa: «Non si è potuto ulteriormente approfondire tale eventualità, stanti anche obiettive difficoltà legate a una eventuale ricerca in altri ambienti ecclesiastici, con la quasi certezza di un esito negativo».
Insomma, di quegli scheletri non sappiamo niente di più, e mai sapremo la verità. Alcuni operai giurano che c’erano, che li avevano visti; nessuno però si espone, nessuno sa dove siano finiti. Senza alcuna indicazione, provare a cercarli ora sarebbe un’attività dall’esito certamente negativo. Eppure 110 scheletri non sono pochi e l’amarezza nel team che andò a ispezionare la basilica ancora oggi è presente: «Fu un lavoro svolto con grande attenzione» afferma una nostra fonte, che partecipò all’attività «ma rimasto incompleto. Del resto, queste ossa non si possono cercare senza saper dove e a chi bussare». A meno che non saltino fuori un giorno, come è accaduto proprio in via Po, dove gli operai che stavano sistemando la cantina del custode della Nunziatura, sollevando le mattonelle e scavando per poche decine di centimetri hanno ritrovato quella tomba clandestina, conosciuta ora in tutto il mondo.
(Articolo pubblicato nel n° 47 di Panorama in edicola dall'8 novembre 2018)